Gualberto Alvino, La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino, prefazione di Pietro Trifone, Napoli, Loffredo-University Press, 2012.
Da "Stilistica e metrica italiana", 12, 2012, pp. 361-364
Nel volume vengono raccolti studi già editi in rivista (tutti sottoposti a revisione e aggiornamento) sulla lingua e lo stile di tre scrittori siciliani certamente molto diversi tra loro, ma accomunati dalla volontà di tenere la propria prosa lontana dalla semplicità e dalla immediata comunicatività prevalenti – pur con molte e significative eccezioni – nella narrativa italiana degli ultimi decenni. I testi di Pizzuto, Consolo e Bufalino vengono sottoposti ad analisi di vario tipo, che trovano il comune denominatore nella volontà di indagare il livello formale delle opere, visto come chiave privilegiata per aprire le porte dell’interpretazione; metodo valido in generale, e tanto più opportuno nei casi, come quelli in questione, di scritture che a causa della voluta complessità possono sembrare a tratti, al lettore ingenuo (categoria nella quale vanno compresi invero non pochi critici letterari, soprattutto tra quelli che imperversano nei giornali), come esperimenti fini a sé stessi e addirittura privi di un reale potenziale semantico. Ma difficile e incomprensibile sono, evidentemente, due concetti assai diversi; il compito principale assuntosi da Alvino sembra proprio quello di mostrare attraverso una puntuale ricognizione linguistico-stilistica che anche le pagine più impervie degli autori studiati si rivelano, a chi le sappia leggere, tutt’altro che imperscrutabili.
Non è un caso che il prosatore di gran lunga più propenso ad allontanarsi dalla lingua d’uso, Pizzuto, abbia bisogno di una serrata indagine lessicale (nei due saggi intitolati
Onomaturgia pizzutiana, pp. 17-76), attraverso la quale vengano illustrate, sia dal punto di vista semantico sia da quello etimologico, le numerosissime coniazioni originali. Spesso, infatti, chi affronta le opere pizzutiane, soprattutto quelle appartenenti all’ultima fase (aperta da
Paginette), si trova dinanzi a parole sconosciute e non immediatamente interpretabili; l’autore del resto era fermamente convinto che allo scrittore moderno sia lecito, e anzi consigliabile, richiedere al lettore «una compartecipazione attiva, direbbe un tomista in cointuizione» (come suona una sua definizione, cit. a p. 18; il riferimento qui è in realtà alle tecniche narrative, ma lo spunto appare estensibile alle componenti linguistiche).
L’uso frequente di vocaboli inusitati non risponde certo, come a volte s’è detto, ad una pura e semplice volontà di ricercatezza se non di gratuita oscurità; come nota Alvino, è lontano dal vero chi vede nella prosa di Pizzuto «culto dell’ineffabile, malia simbolistica, o, peggio, secentismo, sfarzo estetizzante» (p. 20). L’effetto di spiazzamento che l’autore senza dubbio persegue in tutti i suoi testi è funzionale, nelle sue intenzioni, ad un arricchimento del potenziale conoscitivo insito nella parola letteraria (come d’altronde aveva dimostrato da par suo il primo ammiratore ed esegeta pizzutiano: Gianfranco Contini). Frustrare le attese del lettore è un modo di tenerne desta l’attenzione; è ciò che Pizzuto sembra voler ottenere in particolare quando risemantizza parole comunissime:
ardue ‘luminose’ o ‘ardenti’ (da
ardere),
colpi ‘seni’ (dal gr. κολπός),
giordano ‘vaso da notte’ (dall’ingl.
jordan, voce presente nello shakespeariano
Enrico IV), ecc. A proposito dell’ultimo esempio, va detto che la derivazione di parole da lingue straniere è piuttosto frequente: si vedano ad esempio
camminferriere ‘di ferrovia’ (dal fr.
chemin de fer),
glùclica ‘felice’ (dal ted.
glücklich),
tanchisgìvimi ‘festa del ringraziamento’ (dall’ingl.
thanksgiving).
Scorrendo il ricco glossario allestito da Alvino si nota a prima vista come tra i numerosissimi neologismi ottenuti attraverso i principali meccanismi formativi dell’italiano accanto a termini semanticamente trasparenti (
etruscoide ‘di aspetto etrusco’,
monellume ‘gruppo di monelli’,
sfazzolettio ‘l’agitare il fazzoletto’, ecc.), siano abbastanza frequenti invenzioni che richiedono un notevole sforzo interpretativo per essere decifrate; per far solo un esempio si può citare
magdeburgismo ‘intensa emozione’, forma così spiegabile: «Da (
emisferi di)
Magdeburgo ‘cavi per rilevare l’effetto della pressione atmosferica’, col suff.
-ismo» (p. 42). Non c’è dubbio che le glosse di Alvino, che di fatto costituiscono la prima ricognizione formale a largo raggio delle opere di Pizzuto, servano ad un duplice scopo: una migliore intelligenza della lettera di testi finora molto più citati che letti, e una prima incursione non superficiale nel laboratorio dello scrittore, da cui emerge, come elemento forse più rilevante, l’importanza capitale che aveva per lui la cultura greca.
Se la vicenda letteraria di Pizzuto appare del tutto irrelata nel panorama novecentesco italiano, lo stesso non si può dire per la scrittura di Consolo, per la quale da tempo è stato autorevolmente proposto l’accostamento con la prosa di Gadda, della quale condivide la propensione per il plurilinguismo e la plurivocità (peraltro, è stato lo stesso Cesare Segre, nel momento in cui metteva in luce gli aspetti comuni ai due autori, ad operare gli opportuni distinguo). Nel saggio
La lingua di Vincenzo Consolo (pp. 95-127) vengono affrontate in sequenza le principali opere del narratore; ne emerge, con la parziale eccezione del romanzo d’esordio,
La ferita dell’aprile – in cui, «conformemente alle estetiche della verisimiglianza espressiva in voga negli anni Sessanta» (p. 97), si persegue una riproduzione del parlato orientata verso i registri più popolari –, una sostanziale fedeltà ad un tipo di prosa orientata contemporaneamente alla ripresa di elementi di forte letterarietà e all’evocazione insistita della sicilianità linguistica. Entrambi i serbatoi servono bene ad allontanare la scrittura di Consolo da quell’italiano medio da lui notoriamente disprezzato come veicolo di banalizzazione, volgarità e acquiescenza verso le idee dominanti. Gli arcaismi, è bene notare, non pertengono solo al livello lessicale, ma spesso riguardano la morfologia (
soleano,
diè,
conquisi, ecc.). Quanto ai sicilianismi (di cui alle pp. 119-27 è offerto un regesto), è interessante notare la tendenza all’adattamento, in alcuni casi solo parziale, alla fonetica e alla morfologia dell’italiano, come in
blundo ‘biondo’ (da bblunnu),
intinagliare ‘attanagliare’ (da
ntinagghiari),
tomazzo ‘formaggio’ (da
tumazzu); a presentarsi nella forma originale sono quasi solo quelle parole che non divergono dalle consuetudini fonomorfologiche della lingua, come
accianza ‘occasione’,
mafàra ‘tappo’,
zotta ‘sferza’. I numerosissimi ibridi siculo-italiani sono una spia evidente della apertura di Consolo per la contaminazione linguistica, vista come fonte di arricchimento e quindi, implicitamente, come possibile strategia di resistenza di fronte alla decadenza che nella sua visione delle cose sconta l’italiano contemporaneo.
Fenomeno estremo di deflessione dalla medietà linguistica è la propensione di Consolo per la ricerca di particolari effetti ritmico-prosodici, di cui l’esito più notevole è la presenza tutt’altro che sporadica di precise misure metriche (ecco ad esempio un paio di endecasillabi presi tra quelli censiti da Alvino in
Retablo: «E gli occhi tenea bassi per vergogna»; «fuga notturna in circolo e infinita»). I passi appena citati sono spie anche di un fenomeno più generale: il fatto che il periodare di Consolo è caratterizzato dalla «strabordante congerie delle manovre topologiche» (p. 102). Attingendo alle possibilità offerte dall’italiano della tradizione letteraria, ad esempio, vengono realizzati tutti i possibili tipi di iperbato e di anastrofe. In un romanzo come
Il sorriso dell’ignoto marinaio, vista l’ambientazione ottocentesca, i continui ammiccamenti all’italiano del passato varranno anche ad evocare almeno parzialmente un’atmosfera d’epoca; ma vanno anche rilevate spinte diverse, tra cui particolarmente notevole è la fortissima insistenza su un procedimento tipicamente novecentesco come l’enumerazione caotica, il cui effetto è spesso enfatizzato da due accorgimenti opposti: «l’eliminazione della punteggiatura – o il suo esasperato impiego» (p. 103).
Il risultato più rilevante dell’ultimo saggio (
Artificio e pietà. Contributo allo studio di Gesualdo Bufalino, pp. 131-58) è l’adduzione di molte prove utili a contraddire una lettura semplificante, e largamente corrente nella critica, secondo la quale la prosa del narratore comisano sarebbe pacificamente inscritta sotto il segno della fedeltà alla tradizione letteraria. Rispetto ad altri narratori che hanno esordito negli anni Ottanta, per i quali lo sguardo verso il passato sembra carattarizzato da un passivo e acritico desiderio di recupero di uno stile
d’antan, Bufalino gioca consapevolmente a mescolare piani diversi. In un testo scritto poco prima della morte, l’autore indica tra gli obiettivi della sua scrittura il «combinare il visibilio del lessico alto e melismi dell’ineffabile con il sentimento di una ironica disperazione» (cit. a p. 141). È proprio l’ironia una delle chiavi di lettura per capire il senso di opere come
Diceria dell’untore, in cui l’impiego, peraltro larghissimo, di moduli sintattico-retorici iperletterari (di cui Alvino offre un ampio e meditato catalogo) non va affatto interpretato come puro omaggio ai classici, ma risponde semmai all’esigenza di sfruttare a fondo le illimitate possibilità della prosa italiana, cercando di dar vita ad una vasta gamma di soluzioni, «in un perpetuo tentativo di convertire ogni emozione in peculiarità dello stile e viceversa» (come dichiara l’autore nell’autodiagnosi già citata).
Colpisce peraltro che sia sfuggito a tanti critici il fatto, evidente a prima vista, che nelle pagine di Bufalino la componente arcaizzante sia tutt’altro che esclusiva, ma anzi conviva con materiali di opposta natura. Per bilanciare gli elementi per così dire nobilitanti della prosa vengono impiegati soprattutto accorgimenti lessicali, in particolare l’impiego di sicilianismi, per la verità non frequentissimi, e di neoformazioni, che viceversa spesseggiano nei testi di Bufalino. Si tratta per lo più di parole dotate di un alto tasso di espressività, spesso di significato trasparente:
criptocretino,
egofobia,
isolitudine,
madreterna,
mafiocentrico,
teratofilia, ecc. Per alcune conazioni meno immediate, si possono leggere le chiose dello stesso Bufalino, contenute in una lettera ad Alvino pubblicata in appendice al saggio; è il caso ad esempio di
similsudista («Allude [...] a quel tipo di architettura neoclassicheggiante frequente nelle ville dei sudisti americani, al tempo di
Via col vento»), o
sonnogrembo («Il sonno come regressione nel ventre materno»). Vale la pena di segnalare anche che la prosa di Bufalino accoglie altre due categorie di parole estranee alla tradizione (su cui Alvino non si sofferma): i forestierismi e i tecnicismi. Interessanti in particolare i secondi, appartenenti per lo più al linguaggio medico, e adoperati volentieri in contesti metaforici insieme originali e pregnanti.
Resta da dire di un saggio di impianto teorico, il brillante
Dialogo dello Scettico e del Fautore (pp. 77-91), in cui Alvino appassionatamente difende l’opera di Pizzuto dalle facili accuse di oscurità, complicazione formale fine a sé stessa e «assoluto vuoto di esperienze umane» (p. 79), proponendo riflessioni che si possono estendere a molti altri autori appartenenti ad un’area che si può definire genericamente sperimentale. Anche chi non condividesse le valutazioni sullo scrittore in questione non mancherà di apprezzare la risoluta difesa delle ragioni dello stile, che solo un modo molto semplicistico di affrontare la letteratura può tenere totalmente distinte dalla sfera dei contenuti, «quando si tratta d’un binomio inscindibile. Di un’equazione. Lo stile
è la materia» (p. 81; non per caso questo passo è sottolineato anche da Trifone nella
Prefazione). Può sembrare un’affermazione ovvia, ma troppa parte della critica di oggi, piattamente contenutistica e totalmente sorda alle istanze della forma, dimostra che non è così.