Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

domenica 9 agosto 2020

Bruno Pompili, Il fratello lontano

 

Bruno Pompili

Il fratello lontano

Manni, Lecce, 2020

di Alfonso Lentini 

 

Sovrapponendo a una scrittura fortemente contemporanea le atmosfere fiabesche e misteriose dei Vangeli (apocrifi o canonici che siano), Bruno Pompili mette in scena una sincopata e sbilenca “vita di Gesù” e ce la racconta laicamente (o, se si vuole, “infantilmente”), attraverso il punto di vista di uno dei fratelli del Cristo, un sosia inconsapevole, che guarda gli eventi da lontano, sbirciando quasi a caso fra i vari episodi che l’iconografia e la fantasia popolare ci hanno tramandato, mostrando di averne vaga o nulla comprensione (o forse, al contrario, segreta consapevolezza):

«Sì, ora sono proprio insicuro quasi su tutto. Vedo figure e temo che si dissolvano; osservo tracce esigue e invece sono corpi».

Fedele e infedele alle narrazioni evangeliche tradizionali, il libro è disseminato di contrasti irrisolti. Gli episodi, a volte semplici accenni, non giungono quasi mai a compimento e si perdono in un viluppo di enigmi mai del tutto chiariti.

«Mi guardò molto, senza parlare, un poco scuotendo il capo. E poi mi disse di non restare a lungo, e poi mi disse di restare fino all’indomani, di incontrare mio fratello, e poi mi disse di andarmene al più presto.

Non avevo nulla da proporre, e obbedii. Non so a quale suo desiderio, poiché mi chiedeva cose in contrasto».

Tuttavia il punto di forza del libro è proprio in questo narrare nebuloso: lucido e onirico, compatto e sfilacciato, realistico e surreale, ha la capacità di inchiodare alla pagina meglio di un semplice thriller. Persino il finale, al quale si giunge col fiato sospeso, non sembra chiarire i fatti, anzi aggiunge mistero al mistero. Questo non-epilogo potrebbe sembrare deludente al lettore avvezzo alle semplificazioni della letteratura di consumo; ma a chi ama la scrittura irrisolta, complessa, interrogativa, non potrà che apparire come un arricchimento. Perché quello che importa non è dipanare la matassa, ma rendere conto di come la matassa si intrica.

Tanto più che il libro, al di là dell’argomento delicato e “difficile” che affronta (e pur rimanendo dentro a un racconto lineare), deraglia dalla tematica principale in cui può sembrare compresso e si apre a ventaglio verso le più diverse diramazioni di contenuto; così, ad esempio, può essere letto come una modernissima scorribanda sul tema del doppio, in quanto i due protagonisti, Gesù (Joshua) e il suo “lontano” fratello, non sono che un’interfaccia, diversi eppure talmente simili da diventare quasi intercambiabili proprio quando il racconto si muove nelle vicinanze dalla croce alla quale uno dei due dovrà essere appeso.

Attraverso questo gioco di specchi fra i due personaggi (a cui si aggiunge, in coda, la figura di un terzo fratello, Belshatzzar, il più enigmatico e inquietante di tutti) si mette in scena una forma di inchiesta, dai risvolti forse più psicanalitici che teologici, su cosa sia l’identità o la non-identità, e di conseguenza sulle costellazioni che tengono insieme le realtà interiori di ciascuno e le rapportano al mondo esterno.

«Potevo essere preso per il gemello opaco di Joshua, ero l’invisibile. Mi é sembrato in alcune circostanze di essere stato l’inesistente: senza dar peso negativo, tanto mi sentivo egualmente me stesso, e mi bastava».

Importa raccontare la matassa percorrendone gli intrichi, dicevamo: ma ancora di più importa la materia di cui è composta la matassa stessa, che in una narrazione non può essere altro se non la lingua: che qui germoglia tagliente, aforistica, esatta al punto che le parole sembrano colare sulla pagina rotonde e calde come gocce di piombo fuso.

«Non sappiamo quando arriveremo a Yerushalayim, che teniamo sempre lontana con diversioni di sentieri e sempre la pensiamo senza sapere il futuro e col peso di una previsione di dolore, che non ha solo l’immagine di mio fratello sofferente ma quella di nostra madre e la sorpresa di molti sulla perversa logica dei poteri umani. Io penso anche al silenzio divino.

Xantra dice che nessuno può essere nelle intenzioni del padre, poiché non a tutti i figli viene rivelata la stessa cosa.

E anche a noi è lasciato il compito di dover cercare per conto nostro, con errori ed egoismi, con una stanchezza vaneggiante che spesso decide per tutto il resto». 

 

 

Bruno Pompili - Nato nel 1938 in Romagna, vive a Bari. Ha insegnato Letteratura Francese all'Università di Bari dedicandosi alla ricerca soprattutto nell'ambito delle Avanguardie e della letteratura del Novecento.

Ha pubblicato libri di saggistica, e a partire dagli anni Novanta alcuni volumi di narrativa e teatro.