Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

mercoledì 25 settembre 2019

Le professoresse meccaniche e altre storie di scuola







Avete mai provato, in qualche periodo della vostra vita, un sentimento simile a una solitudine concava? A riprova della geometria strana dei sentimenti, che a volte può manifestarsi su piani inclinati, ma anche no. Siete mai stati in una scuola dove le professoresse sono degli automi con parrucche e mettono in scena movimenti meccanici? Una scuola che ha, fra i vari insegnamenti ministeriali, uno importantissimo, fondamentale: l’insegnamento del Silenzio, che si auspica obbligatorio per il futuro? Una scuola che impartisce lezioni di Buio, e tante altre materie stuzzicanti e non convenzionali?
È di storie simili, ambientate in una scuola immaginaria, che ci racconta Alfonso Lentini con garbo stilistico e morbidezza buzzatiana, storie così improbabili e visionarie da sembrare verosimili, strampalate e paradossali nella misura giusta, una misura tanto non colma da indurci a riflettere, in modo amaramente comico, sulla nostra incerta precarietà esistenziale.


Paolo Albani

martedì 24 settembre 2019

Il venditore di tartarughe


 di Carlo Cenciarelli



PRIMA RIFLESSIONE

Più il tempo passa, più quello che è accaduto mi sembra un sogno. E ancor più assurdo mi appare il fatto che io ne sia stato il protagonista. Vorrei capire. Cerchiamo di riassumere la mia condizione e l’evento che mi ha colto totalmente di sorpresa.

Dal lunedì al venerdì le mie giornate si svolgono pressappoco tutte allo stesso modo. Il che mi regala un profondo sentimento di sicurezza e serenità. Sveglia alla sette, doccia, pillola per la pressione, un caffè con la moka, una fetta di ciambellone fresco. Abito a Roma, in una zona del Tuscolano ancora piuttosto popolare, nei pressi della chiesa di Santa Maria Ausiliatrice. Ci sono nato e non me la sono mai sentita di staccarmene. Alle otto e un quarto prendo la metropolitana. A quell’ora affollatissima. Certe volte addirittura traboccante. Ma la cosa non mi dà fastidio. Anzi, mi piace quel contatto così ravvicinato colla semplice vita quotidiana di tanta gente. Più o meno alle otto e tre quarti scendo alla stazione di Lepanto. Faccio due passi e raggiungo un bel palazzo fine Ottocento. Quasi sempre a piedi — amo quelle gradinate ariose e solenni — salgo al secondo piano. Che è interamente occupato dall’impresa di costruzioni per la quale lavoro: la Felsinea s.r.l. della famiglia Amurri. La sede sociale è in un paesino vicino a Bologna ma gli uffici principali si trovano qui a Roma. Io sono il capo della contabilità. Dai vari nostri cantieri (di solito ne abbiamo in piena attività una ventina, alcuni anche in Italia ma per lo più sparsi per il mondo, dal Canada a Dubai) i direttori dei lavori trasmettono ai computer dei contabili che coordino i resoconti giornalieri (è una cosa a cui tengo molto) delle operazioni svolte corredate dal numero di ore d’operaio e dalla quantità di materiali che sono stati necessari. I contabili stampano tali resoconti che in gergo chiamiamo gli statini, nella maggior parte dei casi traducono le parti descrittive dall’inglese a un italiano decente (è un’altra cosa su cui insisto) e ne portano una copia a me e una alla mia segretaria. Lei conserva il cartaceo (che non voglio eliminare), io controllo la congruità degli statini coi lavori descritti in dettaglio nei contratti stipulati, li scannerizzo e li inserisco uno per uno nei vari pdf dedicati ai cantieri che li riguardano. In detti contratti a una certa quota di lavori effettuati o a un certo ammontare di credito è prevista la possibilità di stilare un S.A.L., uno Stato Avanzamento Lavori. Lo redigo con grande attenzione e tutto il tempo che ci vuole (minimo una mattinata). Poi lo consegno a un contabile che lo trasmette al capo cantiere che ha gestito i lavori in oggetto. Questi ce lo fa riavere approvato da un responsabile della stazione appaltante. Allora compilo, sempre personalmente, il modello della fattura e lo faccio inviare al capocantiere. È suo compito stendere la definitiva versione cartacea della fattura medesima e presentarla alla sezione pagamenti del commissionario. Di solito il relativo bonifico giunge puntuale su uno dei nostri conti bancari. Ma può anche darsi che ci siano delle difficoltà. E che io debba darmi da fare. La mia segretaria telefona alla sezione pagamenti inadempiente dicendo che io, il capo contabilità della Felsinea s.r.l., ho urgente bisogno di contattare l’addetto ai nostri bonifici. Quando me lo passano, comincio a parlare in un inglese impeccabile e incalzante. Ormai è la lingua di porci e cani eppure… eppure è come se, ancor oggi, conferisse a una controversia d’affari un tono più rapido e incisivo. Ed è così un po’ in tutto il mondo. La maggior parte delle volte le mie telefonate bastano e avanzano. Ma in qualche caso no. Allora prendo il primo volo, mi presento sul posto e minaccio non solo d’interrompere i lavori ma di smantellare il cantiere tutt’intero e finirla così. È raro che non ritorni con una copia del bonifico effettuato o, nelle situazioni più arretrate, con un assegno. Verso la fine del mese, facendomi fornire i dati dagli altri colleghi, metto a confronto i guadagni derivanti, vuoi dalle nostre attività cantieristiche vuoi da quelle finanziarie, con le spese: stipendi, materiali, trasferte, affitto uffici, acquisto titoli e quant’altro comporti un esborso di denaro. Quando, in questo rendiconto un po’ alla buona che trasmetto ai titolari, riesco a ottenere un profitto netto costante o, ancor meglio, un aumento per la famiglia Amurri, non so bene perché — tutti quei soldi non entrano certo nelle mie tasche — sono dominato da un senso di ordine e di pace: mi sembra che nell’universo mondo tutto sia armoniosamente al suo posto.

L’orario di lavoro è dalle nove alle diciotto con una pausa pranzo dalle tredici alle quattordici. Alle diciotto e un quarto riprendo la metropolitana sempre stracolma, compro al supermercato pane, prosciutto, formaggi, birra, insomma tutto l’occorrente per una cena fredda che poi consumo guardando la televisione. Infine mi sdraio sul divano e spesso m’addormento molto dolcemente davanti al piccolo schermo. Ho messo però la sveglia alle ventitré. A quell’ora mi riscuoto e vado a letto.

Come si vede, per me la settimana lavorativa trascorre in modo molto soddisfacente. Le difficoltà cominciano nel week-end. La prima parte della giornata del sabato passa rapidamente, in una maniera addirittura vagamente piacevole. Mi sveglio piuttosto tardi, mai prima delle dieci, dopo aver fatto molti sogni e, invece della solita doccia, mi preparo un bel bagno. Mi piace gettare nell’acqua che voglio caldissima, fumigante, piccole manciate di grani di sali dai colori violenti e accesi: ocra, cremisi, indaco, blu cobalto. Adoro immergermi in quella bianca schiuma irrequieta ed esorbitante. Che ti avvolge protettiva. Che ti culla dolcemente. Poi mi vesto con gran cura, mettendoci il tempo che ci vuole (odio le persone che fanno le cose in fretta.) Ormai è arrivato mezzogiorno. Esco. Compro il giornale. Prendo un aperitivo. Vado al mio ristorante preferito. Che è napoletano, specializzato in pesce. Amo piatti come il trancio di salmone ai porcini o le ostriche fresche ma non disdegno specialità più semplici come la caprese: basta che sia fatta con mozzarella di bufala e pomodori di Sorrento. Padroni e camerieri mi conoscono come un buon cliente e mi coccolano in tutti i modi possibili. Concludo sempre con due liquori: uno dolce, che può essere un limoncello o anche una sambuca; uno più violento, dal gusto più asciutto e rugoso. Perfetto un whiskey, ma può andare bene anche una grappa barricata. Poiché precedentemente avevo già bevuto tre quarti di vino bianco abbandono il ristorante sempre un po’ brillo. Non tanto però da riuscire a raffrenare l’ansia che comincia a montare in me. Che cosa farò stasera? Iniziano allora le telefonate. Fin da bambino ho sempre avuto pochi amici. Al liceo, però, qualcuno sono riuscito a farmelo anch’io. E a questi sono rimasto testardamente attaccato fino a oggi, quando saranno passati più di trent’anni dall’epoca in cui li ho conosciuti. Ovviamente alcuni — anzi, a esser sincero, la maggior parte — mi hanno fatto capire che non era più il caso. Con tre, però, i rapporti non si sono del tutto interrotti. Con Enzo la relazione è virtuale e quasi puramente telefonica perché è una persona con la quale non si riesce a concludere nulla. Ogni volta il mio tentativo d’approccio si svolge pressappoco così. Chiamo alle quindici:
«Ciao, Enzo, come stai? Sei libero? Facciamo qualcosa insieme stasera?»
«Mmm… ti dispiace ritelefonarmi alle cinque?»
«Per niente. Allora ci risentiamo più tardi».
«Ok».
Enzo, richiamato alle cinque del pomeriggio:
«D’accordo, vediamoci alle sette davanti a casa mia».
«Hai già in mente qualcosa?»
«Decidiamo sul momento».
Mi preparo, esco, vado alla macchina, comincio già a fantasticare su quello che gli dirò rivedendolo dopo tanto tempo, quando il mio cellulare squilla. È lui.
«Scusami tanto ma ho un’emergenza ai campi — è proprietario di alcuni campi da tennis — devo andare e non so che ora farò. Ci vediamo sabato prossimo. Va bene?»
«Che vuoi che ti dica ?... Se proprio non puoi farne a meno… Certo che mi hai fatto organizzare tutta la giornata in funzione del nostro incontro e adesso…»
«Su, che qualche altra cosa da fare stasera la trovi sicuramente. Noi ci vediamo senza meno sabato prossimo. Ti do già orario e posto: alle cinque sotto casa mia. O forse è meglio ai campi? Lo stabiliremo poi».
Se gli ritelefonassi davvero sabato prossimo tutta la commedia si ripeterebbe quasi identica. Ma chi lo sa? Magari si comporta così solo con me.
Un altro, Gualtiero, è l’unica persona da me conosciuta che non ha mai lavorato in vita sua. Lo manteneva Estella, la moglie. Che però quando ha scoperto che lui la cornificava con una spogliarellista rumena (peraltro ricompensata coi soldi di lei) l’ha abbandonato, gettandolo in una situazione difficilissima. Donde tutta una sequela di disgrazie, la più rilevante delle quali è stata un’operazione sbagliata che l’ha lasciato con una gamba più lunga e una più corta. Per cui può muoversi soltanto spingendo davanti a sé un tutore ortopedico d’acciaio, le dita aggrappate ai due manici di questo. Riceve trecento euro di pensione d’invalidità e ha trovato posto in una casa famiglia. Lui, quando gli telefono, accetta sempre di vedermi. Date le sue condizioni, non è che possiamo organizzare chissà che. Gli pago la cena in posto discreto e lui mi racconta per l’ennesima volta le sue tristi vicissitudini che ormai conosco a memoria. Non devo far altro che ascoltare, fingendo partecipazione. Certo, la cosa non è particolarmente esaltante; è comunque un modo come un altro per arrivare alla mezzanotte del sabato, quando ho la scusa per lasciarlo e tornarmene a casa perché «anche se domani è domenica non voglio comunque fare troppo tardi». Poi c’è Furio, ad onta del suo nome, la persona più scialba e grigia che si possa immaginare. Esce solo insieme alla moglie, Caterina, una secchetta un po’ rachitica altrettanto scialba e grigia. Così c’incontriamo in tre e di solito finiamo davanti a una pizza. Furio non è appassionato di niente, quindi non so bene di cosa parlargli. Devo sforzarmi e mi sembra di risultare falso e noioso. Ma forse non è così o forse non è così per loro, dato che quando li chiamo per vederli dicono subito di sì. Qualche tempo fa si aggregava a noi anche la sorella di Caterina, Angela. Bruttina, insipida, desolante. Per fortuna hanno lasciato perdere.

Tante volte, anche la sola idea di questi appuntamenti rimediati a stento, con gente che mi attrae moderatamente, mi disgusta. Allora risolvo il sabato andando al cinema da solo. Più raramente recandomi a visitare qualche mostra d’arte.

Altre volte anche la prospettiva di vedere un film o dei quadri mi risulta insopportabile. Grande è la tentazione di rimanere a casa. Allora però mi ritorna in mente quello che mi diceva una psicanalista che ho frequentato per qualche mese: «Non ceda mai alla voglia di non far nulla che talvolta può prenderla. È così che iniziano le depressioni più gravi. Esca, vada in giro: qualcosa le succederà».
Prendo un autobus, raggiungo il centro storico, mi metto a camminare senza meta. E infatti già mi sento un po’ meno peggio. Anche perché non è del tutto vero che cammino proprio senza meta. Passo sempre davanti alla casa d’un mio vecchio zio che si trova in via de’ Gigli d’Oro, vicino a piazza Navona. Il palazzo è stato abbandonato e oggi ha un’aria sudicia e fatiscente. Ma allora! Allora era pieno di gente molto allegra che chiacchierava, strillava, cantava. Questo zio era il fratello di mio padre che aveva un buon posto in banca e sembrava detestarlo: diceva che era uno scansafatiche, un perdigiorno. Io invece gli volevo molto bene perché era sempre sorridente e festoso, come gli altri abitanti del suo palazzo. E soprattutto perché faceva dei giochi di prestigio che un po’ m’incantavano, un po’ m’inquietavano. Mi chiedeva di coprire con la destra una carta che era un sette di denari, — l’avevo vista più che bene — poi, quando risollevavo la mano, era diventata un sette di spade. Mi sembrava incredibile potessero accadere cose del genere.

In certi momenti mi viene l’idea che mi sarebbe piaciuto fare il prestigiatore, il mago. Ma ben presto mi rendo conto che non ne avrei mai avuto il coraggio.

Durante uno di questi miei vagabondaggi al centro mi trovai di fronte a una situazione bizzarra. Seduto sulla gradinata laterale della basilica agostiniana, sempre nei pressi di piazza Navona, c’era un tizio — non di città, sicuramente un contadino o qualcosa del genere — dall’aria stranamente anacronistica. Un cappello tutto ammaccature, una specie di bolerino lanoso su un camiciotto a quadri dai colori molto vivaci, una cintura enorme, con grandi borchie metalliche e silhouette di cavalli e tori effigiate sopra, jeans stinti e consunti, sandalacci che mostravano piedi poco puliti, dalle unghie sproporzionate. Pure un viso quasi bello: limpido, dalla fronte alta, il naso piccolo, le guance un po’ arrossate. In qualche modo ravvivato da una stupidotta espressione di contentezza. Accanto a lui un robusto e spazioso cesto di vimini intrecciati dal quale tirava fuori freschi cuccioli di tartaruga per poi posarli sulla pietra corrosa dei gradoni. E questi cominciavano a muoversi, lenti ma già sicuri di sé. Quando lì davanti passavano dei bambini — e la cosa era abbastanza rara — strillacchiava con una sua vocetta acuta, stonata ma, insieme, cantilenante: «Bambino! Bambino carino! Vuoi la tartarughina? È bella la tartarughina! Ti fa compagnia la tartarughina!»
Né i bambini né i genitori gli badavano. Io, invece, ne ero irresistibilmente attratto. L’idea che gli era venuta, l’attività che ne era conseguita, mi apparivano così assurde, squallide, inconcludenti che… che mi facevano stare male. Molto male. Tanto da non riuscire a sopportare quelle sensazioni che mi stavano travolgendo. Era inevitabile. Dovevo fare qualcosa. E fu qualcosa di folle e crudele. Lo raggiunsi sulla scalinata. Mi sorrise. Più stolido che mai. Accennai anch’io a un mezzo sorriso.
«Quanto costano questi cuccioli di tartaruga?»
«Poco. Cinquanta euro l’uno».
«Benissimo. Me ne dia quattro».
Il contadinotto sembrava al settimo cielo.
«Ti piacciono le tartarughine, eh?»
«Le odio. Quella loro corazza così spessa e dura le protegge troppo bene. Le compro perché voglio mutilarle, voglio tagliare quelle zampette ributtanti. A proposito, la loro pelle così corrugata sembra molto resistente. Mi consiglia di far arrotare i miei coltellacci da scalco prima di passare all’operazione?»
Intanto il giovane, a uno a uno, aveva rimesso i cuccioli nel cesto, li aveva ricoperti con uno straccione bianco abbastanza lurido e ora vi teneva una mano sopra, come per proteggerli.
«Allora non ve li do! Lasciatemi stare!»
«Cento euro l’uno».
«No!»
«Duecento».
«No!».
«Cinquecento!»
«No, no!»
«Insomma, buzzurro del cazzo! Pezzo di merda! Essere insignificante! Mi vuoi dare queste tartarughe!?»
Lo afferrai per le spalle e cominciai a scuoterlo. Ma lui, spalancando all’improvviso le braccia, spezzò la mia stretta e corse via, il cesto incollato al fianco. Lo insegui nel dedalo delle viuzze. Aveva buone gambe ma il grosso cesto pieno di cuccioli che lui era molto attento a non perdersi per strada gli segava il fianco, lo rallentava. D’altronde il mio fiato era divenuto inesauribile. Gli fui sopra, lo agguantai e gli diedi una spinta feroce. Cadde rovinosamente. Gli rifilai qualche calcio, poi mi gettai su di lui stringendo il suo corpo fra le mie gambe, gli afferrai la testa per i capelli e presi a sbatterla a terra. Una, due, tre volte. Cominciò a sanguinare. Dalla fronte e dal naso. Per fortuna, a questo punto, riuscii a fermarmi. Acchiappai il cesto, ci rimisi dentro qualche tartarughina che, in tutto quel parapiglia, ne era sgusciata via senza però andare troppo lontano, e fuggii.

M’ero impossessato del cesto senza sapere bene il perché, senza avere un’idea precisa su cosa farci. Follemente, adesso mi sentivo soddisfatto e rappacificato. Non c’era in me più nessuna voglia di far del male. Tirai fuori uno dei cuccioli e l’abbandonai in un vicolo. Feci lo stesso per tutti gli altri, ognuno lasciato in un vicolo diverso. E mentre li guardavo procedere lenti ma già così sicuri, come non avessero alcuna paura del futuro che li attendeva, provai una certa invidia per loro.

La domenica per me è peggio del sabato: è il giorno più desolato della settimana, quello dominato dai pensieri più cupi. La domenica che seguì alla giornata che vi ho appena raccontato, invece, fu qualcosa di completamente nuovo. Mi svegliai sollevato, leggero, allegro, con una gran voglia di vivere le ore che mi aspettavano. Feci le solite cose: giornale, aperitivo, pranzo presso il mio ristorante preferito ma animato da una specie d’entusiasmo. Di sera, poi… Verso le venti stavo andando come sempre al cinema da solo quando incontrai una ragazza che conoscevo poco più che di vista. Aveva i capelli rossi, una manciata d’efelidi rosate sparsa sul viso delicato ed era piuttosto bella. La conoscevo perché abitava nel mio stesso palazzo. Fin da subito non coltivai nessuna speranza: avrà avuto vent’anni mentre io — ancora non ve l’ho detto — ne ho quarantotto. Una differenza incolmabile. L’unica cosa era che, mentre gli altri inquilini mi evitavano o mi biascicavano un “buongiorno” a mezza bocca, lei mi salutava distesa, graziosa, accattivante. Adesso me la ritrovavo lì, davanti a un pub, insieme a un amico e a un’altra ragazza. Ci salutammo. Finalmente cominciammo a chiacchierare. Fu lei a chiedermi se volevo stare un po’ con loro nel pub. Certo non rifiutai. Non mi riconoscevo: ero disinvolto, ciarliero, senza inibizioni. Mi sembrava di riuscire molto divertente, di tener tutti appesi alle mie labbra. Intanto, si beveva senza freni. Quando tornai a casa insieme ad Alessia — questo il nome della ragazza — entrambi barcollavamo e sghignazzavamo e nessuno dei due riusciva a infilare la chiave nella serratura del portone.

Mi ero dimenticato di mettere la sveglia e riaprii gli occhi alle otto e mezza, testa dolorante e stomaco sottosopra. Telefonai in ufficio: quel giorno non sarei andato. Una cosa del genere non accadeva da quindici anni.

Ora vorrei comprendere quello che è accaduto fra me e il venditore di tartarughe. Ma non ci riesco. Non riesco a concentrarmi, a pensare in modo freddo e lucido. Sono sopraffatto da un sentimento squisitamente adolescenziale: quello di chi si aspetta che tra breve qualcosa di assolutamente imprevedibile gli sconvolgerà la vita. E questo rende eccitanti i miei giorni.


SECONDA RIFLESSIONE

Purtroppo, lo stato d’animo di cui parlavo è durato solo un paio di settimane. Durante le quali, peraltro, non è accaduto un bel nulla. Poi è tornata la solita vita. Anzi, in essa s’è insinuata un’angoscia che non avevo mai assaporato prima. Tanto che nella nottata del venerdì, quella che precede il fine settimana, ho cominciato a non riuscire più a dormire.

Una volta, stanco di rivoltolarmi nel letto alla ricerca d’una postura finalmente rilassante, mi sono alzato, rinfrescato con una doccia e quindi vestito. Fuori casa non avrò fatto neppure cento passi che mi sono ritrovato in un largo spiazzo dove, lungo il marciapiede sulla sinistra, erano stati allineati in bell’ordine quattro secchioni in robusta plastica rigida per la raccolta differenziata dei rifiuti. Non mancava il bussolotto verde a forma di campana dedicato al vetro. Saranno state le cinque d’una mattinata di luglio ed era già abbastanza chiaro. Notai che qualcuno armeggiava davanti ai secchioni spalancati. Istintivamente, senza pensarci neanche un momento su, mi nascosi dietro un’edicola che era ancora chiusa per contemplarlo a mio agio. Un uomo molto vecchio. Un’ottantina d’anni. Lunghi capelli bianchi incolti, una barbaccia dura, grovigliosa, invadente, anch’essa bianca. Indossava una specie di palandrana marrone — consunta e cenciosa — su jeans stazzonati e portava ai piedi vecchie ciabatte da casa. Si stava rigirando fra le mani una giacca che probabilmente aveva appena trovato e di cui voleva verificare le condizioni. Forse non mi ero nascosto troppo bene perché si accorse di me e cominciò a fissarmi a sua volta. Livoroso, schiumante. Provai una certa paura. Temevo mi si facesse sotto. O magari mi urlasse contro qualche parolaccia sanguinosa. Invece no. Non si mosse, non proferì sillaba. Sopportò. Era un vile. Era anche un vile. Come il venditore di tartarughe.

L’episodio mi era rimasto impresso, nondimeno credevo non avrebbe avuto alcun seguito. Mi sbagliavo. Circa un mese dopo, all’ufficio postale più vicino a casa mia dove ero andato per ritirare una raccomandata, m’imbattei di nuovo nel vecchio. Era a uno degli sportelli. Vestiva più decentemente rispetto a quel mattino: una giacca grigia probabilmente troppo pesante per la stagione estiva — magari era proprio quella trovata nel cassonetto —, una camicia rossa leggermente scolorita, i soliti jeans, un paio di antichi mocassini. Tuttavia sentivo che c’era qualcosa di oscenamente laido in lui. Non mi occupai più della mia raccomandata. Mi accostai a un espositore pieno di bollettini molto vicino allo sportello presso il quale il mio uomo stava trafficando. Di lì potevo guardare, udire mentre fingevo, prima di cercare un bollettino particolare, poi di mettermi a compilarlo con gran cura.
«Ecco la sua pensione, caro signor Marchetti, sono cinquecentocinque euro. Li conti bene. Non faccia come l’altra volta, quando diceva di aver ricevuto cinque euro in meno», gli disse un’impiegata affabile, persino vagamente allegra. Il vecchio prese quelle poche banconote e più che contarle iniziò a strusciarvi sopra le dita con una specie di voluttà: erano l’estremo, esiguo baluardo che lo salvava dalla fame vera e propria.
«Tutto a posto» mormorò, e uscì dall’ufficio postale. Lo seguii. Entrò nel supermercato più economico e desolato della zona. Feci lo stesso riempiendo il mio carrello di cibi di mediocre qualità che già sapevo avrei poi buttato via. Il vecchio si era accorto che lo tallonavo e mi lanciava occhiate piene di rabbia, ma era chiaro che non aveva né il coraggio, né la forza e neppure la voglia d’interloquire in un modo qualsiasi con me. Abbozzava. Alla cassa presentò un tesserino giallo. Ah!... Infatti su una vetrata all’ingresso del supermarket c’era un cartello: Sconto del 10% agli over 65 che richiedono l’apposita tessera. Il mio uomo se ne andò col suo fagottello in plastica blu e in breve raggiunse un vecchio casamento ancora colle persiane. Qualcuna ancora verde verde. Certo abbandonato a se stesso ma non così orrendo come i palazzi popolari di oggi. Probabilmente risaliva agli anni ’30 del secolo scorso. Il vecchio sbatté dietro di sé il portone con una certa violenza: voleva mettere fra me e lui un ostacolo solido e decisivo. Ma per fortuna questo era moderno, in metallo dorato e vetro. Persi ogni cautela, mi ci schiacciai contro e vidi bene il vecchio che saliva i pochi gradini d’una scala corta corta, arrivava al mezzanino e poi scendeva giù, nel seminterrato. Guardai l’orologio: erano le nove e tre quarti.

L’indomani, alla stessa ora, mi trovavo davanti al medesimo portone: morivo dalla voglia di vedere l’appartamento del vecchio. Suonai a un citofono a caso.
«Chi è?»
«La posta!» esclamai con vigore. In realtà, il mio espediente non era poi così azzeccato: ormai era tardi per la posta. Eppure mi aprirono quasi subito. Discesi nel seminterrato. Addirittura quattro porte. La mia era la prima a destra. Me ne avvidi dalla targhetta: G. Marchetti. Tale iscrizione mi rese furente. Ma che cazzo di idea gli era venuta? Già c’era da vergognarsi per avere un cognome così scemo, frusto e usurato come Marchetti. Poi… maledetto rimbambito! che pensata assurdamente anacronistica era quella di farlo precedere dalla G maiuscola puntata! Per me era come se una lama dai denti acuminati mi stesse scorticando i nervi. Se mai c’era un essere immondo che fra poco sarebbe stato riassorbito nel nulla era proprio lui, e credeva che il suo nome fosse noto a tutti! La vanagloria umana è proprio senza limiti. Successivamente, però, riflettei. Magari si chiamava Giuseppe Marchetti. Qualcosa di un grigiore insopportabile. Allora era meglio mettere soltanto la G. puntata. Disturbava meno. Mentre mi calmavo udii al di là della porta un doppiaggio d’altri tempi, molto impostato, assai altisonante: con ogni probabilità il mio uomo stava vedendo un vecchio film in televisione.

Tornai il medesimo giorno alle diciassette. Con la scusa di un pacco Amazon riuscii a entrare un’altra volta molto facilmente. Ero di nuovo davanti alla porta del bugigattolo del vecchio. La televisione era sempre accesa e lui stava ridendo, gracchiante e roco. Mi venne molto naturalmente l’idea che dopo aver fatto qualche giretto di prima mattina il vecchio si rintanava in casa e non ne usciva più. Provai una specie di brivido di ribrezzo.

Ormai ero ossessionato da lui. Ci pensavo quasi tutto il giorno. Probabilmente riceveva una pensione così bassa perché da giovane aveva combinato poco. I problemi economici dovevano averlo angustiato per tutta la vita. E ora, da vecchio, cosa poteva sperare, cosa c’era nel suo futuro ? Solo la morte. Magari, fra due tre anni sarebbe stato colpito da una malattia atroce: un tumore, ad esempio. Magari da una malattia atroce e, insieme, ridicola: un tumore all’ano. Quanto sangue avrebbe cacato prima del suo ultimo respiro! L’unica cosa che poteva augurarsi nel futuro era una morte rapida e improvvisa. E chi l’avesse aiutato a scomparire così, senza che lui se l’aspettasse minimamente e in pochi minuti, non sarebbe stato il suo carnefice ma il suo benefattore.

Muoio dalla voglia di rivedere il vecchio che rovista nei cassonetti, nel momento della umiliazione più grande. Ma non riesco più a coglierlo sul fatto. Per ben cinque volte mi sono svegliato alle quattro, alle quattro e tre quarti ho raggiunto lo spiazzo, mi sono appostato dietro l’edicola e ho cominciato ad attendere. Ma il mio uomo non s’è visto. Ho paura che persino lui si sia vergognato troppo quando l’ho scoperto e ora non faccia più una cosa del genere.


IN DIRETTA

È la settima volta che mi apposto ma, alla fine, è tornato. Eccolo lì: solita barbaccia, solita palandrana, solite vecchie ciabatte. Ha già spalancato un cassonetto e vi ha infilato le braccia. Ancora non si è accorto di me. Benissimo. Così potrò contemplarlo in tutta comodità. Ho portato la borsa da lavoro. Vinco la resistenza del cuoio, vi affondo le dita e sento le punte di due coltellacci che mia madre usava per trinciare il tacchino o l’agnello. Di recente li ho fatti arrotare di nuovo e ora le punte sono perfettamente aguzze, pronte a penetrare in nuova carne. Fra non molto mi slancerò verso il vecchio. Non so quello che farò, cosa accadrà, le conseguenze che ne verranno. So solo che fra pochi, brevi istanti, finalmente vivrò davvero.