Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

martedì 28 gennaio 2014

Corri cane corri e gira


Corri cane corri e gira
gira in tondo frenetico
per morderti la coda
Corri cane corri e gira
Fa piacere sai Conforta
vedere uno più stupido
e ridere con cattiveria
idiota e triste
Corri cane corri e gira
che poi alla fine
ci stanchiamo
tu di correre e girare
io di guardarti e ridere

Esausti ci guardiamo
come due fratelli sconfitti
addormentandoci sul divano

per sognare l'impossibile



©francescorandazzo2014

lunedì 20 gennaio 2014

La strana giornata di Alexandre Dumas



La strana giornata di Alexandre Dumas


Esiste una letteratura storica, che trae spunto da fatti realmente accaduti e vi tesse sopra, intorno e dentro, altre storie, narrazioni ipotetiche che però hanno il gusto salace dell'osservazione di punti di vista e sviluppi possibili, perciò affascinanti.
Così ne “La strana giornata di Alexandre Dumas” di Rita Charbonnier, ci si ritrova fin da subito in un passato misterioso, quasi per un gioco che si rivelerà un'esca, sia per Dumas che per noi lettori.
La vecchia madame lettrice di oroscopi, ci condurrà dai misteri degli astri a quelli della sua vita. In un gioco di continui incastri narrativi, sapientemente utilizzati dall'autrice che pare lei la “nipote di Dumas”, tanto quanto quella “sorella di Mozart” che nel suo precedente libro aveva fatto vivere, tutto si snoda, nell'intreccio narrativo della protagonista che ripercorre la propria vita, tormentata ma avventurosa ed infine, più felice di quanto lei stessa avrebbe potuto immaginare. Tutto scaturisce dal più classico dei temi letterari, da Plauto all'Ottocento romantico, quello dello scambio di due bambini in fasce. Nel nostro caso, lo scambio tra il figlio di una guardia carceraria di Modigliana e la figlia di un nobilissimo e misterioso francese, Joinville, che per salvaguardare il proprio patrimonio e la propria linea dinastica, non esita a comprare il neonato maschio che la propria nobile moglie non è riuscito a dargli. La bambina verrà lasciata alla famiglia del carceriere Chiappini, in cambio di molto denaro e crescenti privilegi.
Tra segreti, depistaggi e persino un omicidio, tutto sarà celato per decenni. Ma la bambina, Maria Stella, sentirà, fin dalla più tenera età, un senso di estraneità, di disagio interiore, ed anche una certa agitazione, fisica e spirituale, che la porteranno a vivere una vita animatissima e complessa, fino alla scoperta dello scambio, il quale innescherà processi e tentativi di rivalsa, nei confronti dell'altro, del bambino comprato, che nel frattempo è divenuto nientemeno che il Re di Francia!
Che fantasia da feuilleton ottocentesco, che iperbole alla Conte di Montecristo, direte voi! Invece proprio questa parte della storia è quella vera. Una Maria Stella Chiappini, di Modigliana, moglie prima di un Lord inglese e poi di un Barone russo-tedesco, che intentò causa al futuro Re di Francia Luigi Filippo I, è veramente esistita. E Dumas, in gioventù copista presso il Duca futuro sovrano, aveva proprio scritto di suo pugno, la dettatura della ricusazione contro la sedicente nobile scambiata. Da qui, la Charbonnier, parte per intessere la sua trama narrativa, della quale più non dirò, mi piace concludere ottocentescamente: perché possiate o lettori, tuffarvi da voi stessi nelle avvincenti pagine che vi consigliamo d'apprestarvi a leggere, con sommo diletto e piacevolezza.

f.r.


Il libro è edito in cartaceo da Piemme.

Un'edizione in ebook, con iconografie e un inedito dalle memorie di Dumas, appositamente tradotto dall'autrice, è disponibile nei principali ebook store sul web:



domenica 12 gennaio 2014

Invertiti




Uso prima dell'agitare.
Morte di pericolo.
Sosta di divieto.
Porci alle perle.
Aspetti chi la fa.
Uno interno al citofonare.
Rigore di calcio.
Generale, prova!
Scena, di chi è?
Momento, all'ultimo.
Nullo amor, ch'amato
Che abbaia morde, non cane.
Redditi di dichiarazione.
Condotta in voto.
Lecchi salame.
Scrupoli senza...
Culo in afa.
La pelle per amici.
Out black.
Carmine della madonna.
Servizio fuori.
Gente salva.
Storna la cavallina!
Patata di spirito.
Dario Lampa.
Ma santa donna!
Rosso si spera, mattino di sera.
Re, non disturba.
Stop auto.
Vietato sen, so.
La rogna il più c'ha pulito.
Godo aspettando t...
Silenzi, o Fate!
Vita di ragazzi.
Il cuore va dove ti porta
Capo ha cosa fatta.
Pace di giudice.
Difensori d'avvocati.
Della morta.
Sa, me la... ungherese... di Milano?
Lungo la notte, viaggio verso...
Oca di pelle.
Giù, lì va', oca!
Comporci le ali.
Occhio, Pino!
Cornuta, segale!
Cane di cuore.
Tana, bù!







 ©francescorandazzo2014


giovedì 2 gennaio 2014

Racconto di Capodanno



Scadenza

Ci sono almeno due notti all'anno che anche un medico vorrebbe trascorrere in pace: la vigilia di Natale e l'ultimo dell'anno. La vigilia di Natale dovetti fasciare le bruciature al braccio di Bobby Dascouli, anche se avrei preferito sedere sulla sedia a dondolo accanto a Ruth e rimirare le meraviglie del nostro albero.
Non fu una sorpresa perciò se, dieci minuti dopo essere giunto a casa di mia sorella Mary per trascorrere l'ultimo dell'anno, venni chiamato d'urgenza per un caso in città.
Ruth mi sorrise tristemente e scosse la testa. Baciandomi sulla guancia, aggiunse: - Povero Bill.
- Povero Bill davvero - dissi io, buttando giù il primo drink della serata. Il bicchiere era pieno solo per due terzi.
- Be', non far nascere il bambino finché torno. - E così dicendo diedi un colpetto alla pancia prominente di mia moglie.
- Farò del mio meglio.
Salutai gli altri in fretta e uscii. Fuori, mi tirai su il bavero del cappotto e mi diressi alla Ford. Un po' di bizze e finalmente il motore partì: mi dirigevo in città con lo sguardo triste e riflessivo che tante volte ho visto sulle facce dei medici condotti.
Erano le undici passate quando le catene dei miei pneumatici risuonarono sulla neve di East Main Street. Guidai per altri tre isolati, all'indirizzo che mi avevano dato, e parcheggiai di fronte a quello che era stato un palazzo signorile. Ma questo accadeva ai tempi di mio padre: adesso si era trasformato in una specie di pensione e aveva un'aria decisamente decadente.
Nell'atrio illuminai le cassette delle lettere con la mia pila tascabile, ma non trovai il nome. Così chiamai la padrona di casa, che mi aprì il cancello interno. Lo spinsi.
In fondo all'androne si aprì una porta e ne emerse una donna grossa e pesante. Indossava un maglione nero e una gonna verde a pieghe, calzini a strisce sopra le calze già pesanti e scarpe dal collo aperto sopra i calzini. Non era truccata, e il colore che spiccava sul suo viso era quello di due chiazze rosse naturali. Ciocche di capelli grigi pendevano qua e là sulle tempie. Nel venirmi incontro per l'androne oscuro si ravviò i capelli come poté.
- Lei è il dottore?
Dissi che lo ero.
- Ho chiamato io. Ci sta un vecchio al quarto piano, e dice che sta morendo.
- Che stanza? - chiesi.
- Ce lo faccio vedere io.
Seguii il suo faticoso passo su per le scale. Ci fermammo davanti alla camera 47 e lei bussò alla porta sottile, poi l'aprì.
- Sta qua - disse.
Entrai e lo vidi disteso sul letto di ferro. Il corpo era flaccido come quello di una bambola rotta. Le mani immobili, solcate di vene, erano chiazzate di macchie di fegato ed erano tese lungo i fianchi. La pelle aveva il colorito scuro delle pagine ingiallite, del bordo delle pagine, e il volto era una maschera consunta. La testa poggiava su un cuscino senza federa, i capelli bianchi sparsi come fiocchi di neve. Sulle guance pallide cresceva un po' di barba ispida, e gli occhi azzurro-glauco fissavano il soffitto.
Mi tolsi cappotto e cappello e constatai che l'uomo non soffriva. Aveva un'espressione di serena accettazione. Sedetti sulla sponda del letto e gli presi il polso, e solo allora mosse gli occhi e mi guardò.
- Salve - dissi, sorridendo.
- Salve. - Fui sorpreso dalla fermezza della sua voce.
Il polso, tuttavia, mi confermò quello che già sospettavo: c'era in lui appena un barlume di vita, il battito era quasi inawertibile. Gli lasciai la mano e gli toccai la fronte col palmo. Non aveva febbre. Non era malato, dunque: si stava solo spegnendo.
Diedi un colpetto sulla spalla dell'uomo e mi alzai, indicando alla padrona di casa di seguirmi. Ci appartammo in un angolo e chiesi: - Da quanto tempo è a letto?
- Da questo pomeriggio - rispose lei. - Prima di coricarsi è venuto giù da me e ha detto che oggi moriva.
Le diedi un'occhiata: un fenomeno del genere non mi era mai capitato. Ne avevo letto, naturalmente, ne hanno letto tutti: un uomo o una donna anziani annunciano che, a una certa ora, moriranno. E quando scocca quell'ora, muoiono davvero. Chi può dire di che si tratta? Volontà o precognizione, o tutt'e due le cose. Tutto ciò che sappiamo è che si tratta di una cosa misteriosa, una cosa che incute timore.
- Ha parenti? - domandai.
- Io non ne conosco - disse la donna.
Annuii.
- Però non capisco.
- Che cosa?
- Quando è venuto a vivere qua, il mese scorso, stava benissimo. E perfino questo pomeriggio, mica sembrava malato.
- Non si può mai dire - commentai.
- No, non si può - convenne l'affittacamere. Ma in fondo agli occhi le baluginava una luce inquieta, stranita.
- Be', non c'è niente che io possa fare - dissi. - Non ha nemmeno dolori. » solo questione di tempo.
L'affittacamere annuì.
- Quanti anni ha? - domandai.
- Non me l'ha mai detto.
- Capisco. - Mi avvicinai di nuovo al letto. Il vecchio mi disse: - Ho sentito.
- Prego?
- Lei vuol sapere quanti anni ho.
- Ebbene, quanti?
Tentò di rispondere, poi cominciò a tossire aspramente. Sul comodino c'era un bicchier d'acqua, che gli porsi, sollevandogli un poco la testa. Quand'ebbe bevuto lo feci stendere di nuovo.
- Ho un anno - disse il vecchio.
Non era una battuta, e la sua faccia era calma come al solito. Io feci una risatina nervosa, quindi posai il bicchiere.
- Lei non mi crede - aggiunse il moribondo.
- Be'... - Mi strinsi nelle spalle.
- Ma è la verità.
Annuii e cercai di sorridere di nuovo.
- Sono nato il 31 dicembre 1958 - continuò il mio uomo. - A mez-
zanotte.
Poi chiuse gli occhi. - Ma a che serve? L'ho detto a centinaia di persone, e nessuna ha capito.
- Lo dica a me.
Dopo qualche istante, tirò il fiato.
- Una settimana dopo esser nato - cominciò - ero già in grado di parlare e camminare. E mangiavo da solo. Mio padre e mia madre non credevano ai loro occhi. Mi portarono da un medico. Non so che cosa pensasse, ma non fece niente. Che cosa poteva fare? Non ero malato. Mi rimandò a casa coi miei genitori. Crescita precoce, sentenziò. Passò una settimana ed eravamo da lui di nuovo. Ricordo benissimo la faccia di mio padre e mia madre: eravamo tutti in macchina, si andava dal dottore, e loro avevano paura. Paura di me. Il dottore non sapeva che pesci pigliare. Consultò degli specialisti, ma anche quelli brancolavano nel buio. Sembravo un normalissimo ragazzetto di quattro anni. Mi tennero sotto osservazione, scrissero relazioni sul mio conto, e da allora in poi non ho più rivisto i miei genitori.
Il vecchio fece una pausa, poi ricominciò a parlare nel solito modo meccanico.
- Passò un'altra settimana e avevo sei anni. Un'altra ancora e ne avevo otto. Nessuno capiva. Tentarono ogni sorta di prove, ma non c'era risposta.
Poi ebbi dieci, dodici anni. Quando ne ebbi quattordici fuggii, perché ero stanco di essere studiato come una cavia.
Guardò il soffitto per circa un minuto.
- Vuole ascoltare ancora? - mi domandò.
- Sì - dissi meccanicamente. Ero stupefatto dalla facilità con cui parlava.
- All'inizio cercai di oppormi al processo. Andai dai dottori supplicandoli di scoprire che cosa c'era, in me, di sbagliato. Ma non c'era niente di sbagliato: soltanto, ogni settimana invecchiavo di due anni.
- Poi ebbi l'idea.
Trasalii leggermente, emergendo dalle fantasticherie che il guardarlo mi procurava. - Idea? - chiesi.
- Sì, è così che è cominciata la storia.
- Quale storia?
- Quella sull'anno vecchio e l'anno nuovo. L'anno vecchio è un vecchione con la barba e la falce. La sa anche lei. L'anno nuovo è un neonato.
Il vecchio tacque. In strada, i pneumatici di una macchina stridettero, poi svoltarono l'angolo.
- Credo che ci siano stati altri casi come il mio - disse il vecchio. - Uomini che vivono un anno solo, e questo da quando dura il tempo. Non so come succeda e perché, ma di tanto in tanto succede. Dopo un po' la gente se ne dimentica, e al giorno d'oggi pensa addirittura che sia una leggenda. Pensa che sia un'immagine simbolica, e invece non lo è.
Il vecchio girò la faccia consunta verso il muro. - Io sono il 1959 - disse, tranquillo. - Ecco chi sono.
L'affittacamere e io lo guardavamo in silenzio. Alla fine alzai gli occhi su di lei, e quella, come assalita da un senso di colpa, girò sui tacchi e uscì in fretta dalla stanza. La porta sbatté pesantemente alle sue spalle.
Tornai a guardare l'uomo, mentre all'improvviso mi mancava il respiro.
Mi chinai su di lui e gli presi il polso, ma le pulsazioni erano scomparse.
Rabbrividii, gli lasciai la mano e mi alzai in piedi. Rimasi a guardarlo per un po', e alla fine un senso di gelo mi serpeggiò per la schiena. Senza pensarci, alzai la manica del cappotto e guardai l'orologio.
Aveva spaccato il secondo.
Mentre tornavo a casa da Mary ripensai alla storia dell'uomo, alla stanca
rassegnazione nei suoi occhi. Continuavo a ripetermi che era tutta una coincidenza, ma non riuscivo a convincermi.
Fu Mary ad accogliermi. Il soggiorno era deserto.
- Non dirmi che la festa è già finita - dissi.
Mary sorrise. - Non è finita, ma continua all'ospedale.
La guardai, senza afferrare. Poi Mary mi prese il braccio.
- Non immaginerai mai - disse - a che ora Ruth ha partorito il più bel bebè di questo mondo.



Titolo originale: Deadline. (1959)


I racconti di Matheson sono sempre sorprendenti, straordinari, visionari.  I quattro volumi dei racconti riediti da Fanucci sono una lettura consigliatissima per tutti.