Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

domenica 30 maggio 2010

I am I, Hamlet the asperger





























Sono un peccatore eppure sono innocente
Sono un traditore eppure fedele fino alla morte
Sono rigidamente coerente eppure lunatico
Sono triste come Buster Keaton eppure so far ridere
Sono cattivo ma so accarezzare
Sono duro ma so assorbire
Sono confuso ma vedo chiaramente
Sono irascibile ma so respirare la calma
Sono misantropo eppure amo la gente
Sono deluso eppure mi entusiasmo
Sono uno scemo tanto intelligente
Sono creativo ma sono troppo schivo
Sono di sinistra ma ormai non la trovo
Sono di destra ma solo con la mano
Sono pacifico eppure ammazzerei
Sono educato eppure insulterei
Sono represso ma senza rimpianti
Sono un idiota eppure so quel che dico
Sono antico ma rinasco ogni giorno
Sono io eppure sono altro
Sono notturno eppure amo le albe
Sono onesto ma non so che farci
Sono amico ma non so perché
Sono innamorato ma non so come
Sono felice ma per attimi affilati
Sono atterrito eppure incosciente
Sono prudente eppure mi lancio
Sono lento ma con frenesia
Sono agitato ma al centro del Maelstrolm
Sono fermo
Sono in corsa
Sono avanti come Eta Beta
Sono indietro come Kierkegaard
Sono pignolo come Wittgenstein
Sono ilare come mio nonno
Sono stronzo come mio padre
Sono puro
Sono fausto
Sono vero e certo
Sono nuovo
Sono passato
Sono assente
Sono qua
Sono altrove
Sono fumo e profumo
Sono pietra e acqua
Adesso punto
e non so dove spunto.


© Francesco Randazzo - 2010   





venerdì 28 maggio 2010

Una cosa che improvvisamente traspare




Qualche volta uno si gira vede Dio ma non lo riconosce
È che non ci si aspetta di vederlo ma per questo spunta
Non è con cose maestose o imponenti che si mostra
quello non è Dio è la natura che casomai è fatta da lui
Non sono fulmini o luci improvvise né raggi cosmici
questi son tutti effetti speciali che ti puoi fare col pc
È piuttosto una cosa che improvvisamente traspare
o si mostra quasi in corsa nella testa e negli occhi
una cosa che vedi ma non sai di vedere Uno scherzo
quasi Verrebbe da pensare che si diverta a far così
Mentre Michelangelo dipingeva la cappella Sistina
è apparso a un muratore che spostava un carrello
ma quello s'è asciugato il sudore con la mano sporca
e ha tirato dritto Questo non sta nel dipinto Non c'è
È successo però Nessuno se n'è accorto Così fa
Io penso di sapere perché Mi son fatto un'idea mia 
È che lui non lo sa che è Dio e nemmeno gl'importa
Come l'acqua non sa d'essere acqua ma scorre e bagna
Dio non ha presunzione di sé Non ne ha nessun motivo
A noi non restano che questi momenti inafferrabili
un sacco di dubbi o nel peggiore dei casi il fanatismo
Io ogni tanto mi giro vedo Dio ma non lo riconosco
Diffido molto di quelli che lo vedono dappertutto
e sanno sempre esattamente com'è e cosa vuole


© Francesco Randazzo - 2010

lunedì 24 maggio 2010

Da lontano




C'è un sacco di gente che sta male
un sacco di gente che si lamenta
un sacco di gente che soffre eppure
non muore mai sta là Sta e la sfanga


C'è un sacco di gente che sta male
un sacco di gente che si lamenta
un sacco di gente che soffre in silenzio
muoiono soccombono l'ammazzano


C'è un sacco di gente che se ne fotte
C'è un sacco di gente che blablablà
C'è un sacco di gente che ride forte
ride di tutto anche quando non è il caso
sghignazzano come s'avessero singhiozzo


C'è un sacco di gente preoccupata assai
C'è un sacco di gente che si fa i fatti suoi
Ognuno sta appollaiato sopra il proprio pero
e tutti sputano all'in giù Però però però


Dalla terra smossa ritmato giunge il suono sordo
di stivali chiodati Da lontano vibrante e cupo
persistente s'ingrossa un presagio di schianti 


© Francesco Randazzo - 2010

giovedì 20 maggio 2010

Esco

















Esco fuori di casa fuori di testa fuori di me
esco a cercare il sole la pioggia anche lo smog
esco per non star seduto per pensare ad altro
Mi scorporo da questa scatola cuccia carcere
questa trappola della mente Evado emicranie
complessioni pneumatiche d'asfissia soffusa
Mi alzo m'affaccio ficco fuori il naso valuto
temperatura venti nuvole la muffa del vicino
mi tocco la testa con il palmo a coperchio
batto sobbalzo m'abbasso pericolosamente giù
Esco sì ho deciso esco Vado vado vado vado
Bello quel vaso e il muro turrito che lo regge
bello questo scorcio di cortile terrazzi balconi
bello questo silenzio o queste voci o rumori
Mi devo vestire mi devo lavare mi devo essere
E mi trascorro acque e saponi abiti e scarpe
e mi guardo di sfuggita sul riflesso della porta
e l'apro e oltrepasso il confine e vado e chiudo
la porta e scendo e ansimo extrasistole chiasmi
di strabici borbottii Mi scappa sulle scale un passo
di mambo e un inciampo di cha-cha-cha ma che fa
mi gira la testa ma non svengo mai mi reggo
ma non mi seggo Trasecolo m'assottiglio in fili
e finalmente fuori distendo otto zampe passeggio
al sole ostendo il cefalotorace Galleggio sospeso
tra l'asfalto i balconi sopra le auto in doppia fila
e i tetti degli autobus che corrono in ritardo







© Francesco Randazzo - 2010


giovedì 13 maggio 2010

恐惧





Stringi la tua paura e accarezzala
Non cercare di fuggirla lei sa tutto
di te non puoi scappare Ma tienila
tienila stretta sorprendila Baciala
Offrile una cena d'aragoste spinose
brindale vino bianco ghiacciato e poi
portala a fare un giro in macchina
coi finestrini spalancati lungo il mare
ventoso Corri con lei Sconvolgila
Dalle il tuo brivido Falla sorridere
Sgomma in curva sbanda riprendi
la strada Guarda dritto davanti a te
Non rallentare mai Corri e canta
a squarciagola contro il vento
cantale una canzone inaspettata
Trasuda ferro e benzina salata
Dille che l'ami che la scoperai
finché t'implorerà di smetterla
Dille che sai dove state andando
mentre ti perdi correndo nella notte
All'alba fermati e reclina il sedile
Stringi la tua paura e accarezzala
guardala negli occhi mentre se ne va
sfiorala con le labbra e poi respira


© Francesco Randazzo - 2010

giovedì 6 maggio 2010

Mario Lunetta. «Là comincia il Messico» di Gualberto Alvino


Là comincia il Messico di Gualberto Alvino è un brillantissimo esempio di narrazione autofagica, nel senso che i frammenti di vicende che quasi a caso affiorano dal magma diegetico vengono immediatamente divorati da un flusso linguistico ribollente, ipermetaforico, sempre in bilico tra esaltazione e depressione, in una sfida alla funzione fàtica davvero di straordinaria tensione e di stupefacente capacità illusionistica. Chi ha confidenza col genere western sa che la battuta «Là comincia il Messico» è la proverbiale liberatoria psicologica che pronunciavano i banditi in fuga, convinti dell’impunità una volta superato il confine. Nel controromanzo di Alvino sta a significare il mutamento che per ineluttabile forza di aridità si verifica nel Protagonista verso il confine-non fine del libro, che quasi come una mostruosa resurrezione trapassa da peritissimo dissettore letterario a feroce, sfrenato pseudoperito settore di corpi umani ormai animato soltanto da una cieca furia sanguinaria. Dentro c’è una duplice molla: la frustrazione e la vendetta, attuata non come risarcimento ma unicamente come punizione. Certo è che l’ego dell’uomo, che non parla ma viene parlato dal proprio inconscio, è ipertrofico, quindi incapace di comunicare con se stesso. Di qui, quella sorta di abdicazione ad esprimersi che lo chiude in una torre d’avorio terribilmente precaria, piena di crepe e di fratture; quella colluttazione perenne con la letteratura, col Verbo, col Senso perennemente ignoto: enigma e stemma di unicità difesa fino alla morte. Ma oltre quel confine non c’è il Messico, perché oltre la paranoia c’è solo il buio della follia, di cui l’impazzimento della parola ormai disancorata da tutto, alienata da se stessa, è estremo, insensato paradigma.
Nella letteratura del Novecento la Galleria dei Mutamenti (e dei Mutanti) è decisamente folta, e va dai crepacci dell’orrore alle pieghe della malinconia fredda, da Pirandello a Kafka a Bulgakov a Butor, ed ancora, ancora. Ne La modification, quest’ultimo adotta, con secca mossa spiazzante, la seconda persona plurale. Alvino pratica la seconda singolare, come — direi — necessità testuale impone: dal momento che il suo controromanzo ha l’allure di un’interminabile, aggrovigliata seduta analitica senza catarsi. Il Protagonista è un critico e un filologo di gran fama, e noi conosciamo la qualità di Gualberto Alvino, appunto critico e filologo che si è sempre misurato con scritture letterarie complesse e eterodosse, da quelle di Pizzuto a quelle di Bufalino e di D’Arrigo. Che non abbia il nostro dichiarato guerra aperta a certe discipline non di rado praticate come puro esercizio di neutralistica dissezione anatomica, proprio per rivendicarne il senso dialettico che conferisce loro energia e concreta precisione? Ecco allora che Gualberto, straordinario fuorilegge, oltrepassa il confine e affronta quel fertilissimo deserto che si chiama Narrativa. O meglio, Narrazione. E lo fa naturalmente coi mezzi, il bagaglio tecnico e la sagacia che la sua lunga esperienza critico-filologica gli consente, anche come scrittore di fiction.
Scrive Nietzsche in Umano, troppo umano che «i filologi non sono che liceali invecchiati». È una crudeltà abbastanza gratuita, ma mi pare si attagli perfettamente al Protagonista alviniano. Chi è infatti costui? Al di là dei suoi cospicui meriti professionali, sarebbe semplice (ma anche semplicistico) definirlo uno psicopatico passivo, incapace di aprirsi alle pulsioni degli affetti, della generosità, della carità umana. Un padre di cui la Voce gli rinfaccia sia morto a causa sua: «non gli hai parlato per vent’anni perché temevi di assorbirne l’indole collerica e criminale»; una madre mancata poco dopo per suicidio, sulla quale ha composto un epitaffio «versando lacrime di plastica»; un fratello poeta che lo ha sempre sostenuto e incoraggiato negli studi, e a proposito del rapporto col quale la Voce lo inchioda spietatamente: «Sostieni che lui, provvedendo alla tua educazione, ha fatto il proprio dovere di fratello maggiore, e se oggi sei quel che sei lo devi solo ed esclusivamente a te stesso, perché hai saputo far tesoro dei suoi insegnamenti rendendoti presto completamente autonomo. Ti appelli, inoltre, alla non eccelsa qualità dei suoi prodotti e affermi che un critico non può anteporre ai propri obblighi futili questioni di natura privata a affettiva. Sei certamente nel giusto».
I suoi rapporti con le donne non conoscono che la sequenza a-dialettica padrone-schiava. Quelli col rampollo, si chiudono nel puro e semplice rifiuto, per la sola ragione che lo ritiene condannato alla mediocrità: «quanto di peggiore — insiste la Voce — avresti potuto auspicare per il tuo unico figlio». Anche i rapporti con gli amici e gli allievi sono improntati a un che di perverso, in cui è dominante il principio paranoide della sopraffazione. L’inclinazione sadomaso intride questa burrascosa seduta analitica in forma di romanzo: e il Protagonista-paziente sembra più intrigato — da letterato per sempre perduto nelle foreste pluviali delle parole — dal dottor Lacan piuttosto che dal dottor Freud.
Nel suo delirio si accampa un groviglio di allucinazioni uditive, che si dipanano in una sequenza di voci del tormento, ma non della coscienza critica. Sarebbe un momento liberatorio, ma la sua arroganza non può consentire a mettersi in discussione, proprio per l’assoluta identificazione prodottasi in lui negli anni tra il flusso del suo sangue e il sangue della letteratura. Così, non può che difendere, a ogni piè sospinto, la superiorità del critico sul creatore: «Uno scrittore è solo uno scrittore, ma un grande critico può far brillare l’universo nel palmo della mano».
È inevitabile e giusto, in un testo come quello di Alvino, che la dimensione saggistico-teorica sulla letteratura abbia uno spazio preciso: e lo è in rapporto alla professione del Protagonista che si trova coinvolto in un processo spietato in veste di imputato, ma anche (e forse, soprattutto) in rapporto alla concezione che la scrittura letteraria con funzione allegorica ha il nostro narratore. Si potrebbe perfino parlare di Là comincia il Messico come di saggismo diluito in metafore a catena, di una scrittura di iperbolica ricchezza stilistico-semantica impegnata a slittare senza tregua dalla dimensione della violenza spinta fino all’efferatezza a quella del sublime irriso e rovesciato di senso. In questo gioco solo apparentemente deregolato, ma in realtà stretto da una regia di straordinario rigore, il narratore utilizza certi suggerimenti di grande marchio, torcendoli alla sua maniera fintamente dissennata: mi viene da pensare, a proposito di certi movimenti catalogici alviniani, ai celebri accumuli di oggetti preziosi cari al Des Esseintes di A rebour; come, a proposito di certe situazioni particolarmente abiette, al Bataille di Le bleu du ciel o di Ma mère. Quel che è certo è che lo stridore fra l’opulenza sontuosa della lingua di Gualberto e gli orrori che essa esprime assume una strana piegatura verso il comico: tanto che potremmo parlare di lingua “neroniana”. Col suo Super-Eliogabalo Arbasino ha disegnato un affresco comico-parodico. Nel suo de-romanzo Gualberto Alvino mette in scena un tragico infame. Ma quelli del romanzo arbasiniano erano gli anni Sessanta, anche con le loro fiammate non solo carnevalesche. Il testo alviniano è di questi nostri anni di degrado totale e di assenza della speranza.
Ecco allora che in questo libro il buio psichico attraversato da lucori sulfurei si manifesta tutto dentro il grande buio dell’epoca. Alvino è troppo consapevole per non sapere che la storia entra comunque nella letteratura: per cui, anche quando non esplicitamente evocata, magari solo per frammenti e detriti, la sua ombra avvolgente non lascia per un attimo la scrittura. Ciò avviene brutalmente anche in quel particolarissimo “libro filmico” — mi si passi la metafora intercodice — o «libro-drammaturgico» violentemente espressionistico che è Là comincia il Messico.
Questo “mostro” della Forma Scorporata che è il Protagonista non può non trovarsi stretto in un’angoscia sterile, tra le baldorie e le orge che il figlio organizza nell’appartamento che abita su quello del padre e la sua caccia folle al mot juste. A paragone, Flaubert era un dilettante alquanto sciatto. «Scordavi che scrivere è modo d’essere, non qualità; stato, non azione», questo gli rimprovera la Voce. È, alla fine, una taccia di superficialità, accampata nel delirio certosino di perfezione ogni volta nec ultra. Ma sicuramente il Protagonista, chiuso nello specchio del proprio narcisismo ipertrofico e del proprio egoismo totalitario, ignora l’adagio di Oscar Wilde che ricorda come la massima colpa sia la superficialità. È forse contro di essa, e per rinfacciargliela senza pietà, che il figlio si fa capobranco di una folla efferata che agisce sempre più aggressivamente nei suoi confronti, fino alla fine, alla distruzione, all’autodistruzione, ritmata dagli interventi sempre più catastrofici della Voce, che non ha mai un cedimento in direzione della pietà, e sembra animata invece da un fiato instancabile di castigo.
Un tour de force linguisticamente superbo, il romanzo di Alvino; specie se confrontato con la media dei romanzi da banco che la nostra editoria coloniale sforna su un format di inutile mediocrità, in una lingua predisposta per un target imbottito di telefilm dove «il Messico» non comincia mai. Nel caso di Alvino, il Messico sta certo per “l’Italia”, di cui Sergio Muscetta, figlio del magnifico Carlo, scrisse una volta, con sarcastica disperazione: «Oh Italia, terra d’eroi / dove non avviene mai il poi».

Da «L’Immaginazione», a. XXVI, marzo 2010, n. 253, pp. 55-57.

Preghiera per la terra di Mario Salis






Benvenuto sia in terra
Piedistallo del dolore
Benvenuto sia il vento
Che spolvera ogni cuore


Benvenuto sia dal cielo
Dell’umile Signore
Chi muta un canto triste
In splendida canzone


Benvenuto sia il sorriso
Abito di ogni paradiso
Benvenuto sia ogni giorno
Chi di pace ha bisogno


Benvenuta sia la pioggia
Che dona l’abbondanza
Benvenuta come non mai
Per ogni uomo la speranza


Benvenuta sia la vita
A cui tanto derubiamo
Benvenuta sia la sera
Che riposa il corpo umano


Benvenuto sia il pensiero
Di chi ha l’animo sincero
Benvenuta sia la stella
Che riluce in ogni terra


Mario Salis
a Tiziano TERZANI
6 maggio 2010


domenica 2 maggio 2010

Gualberto Alvino. Much ado about nothing

Paolo Sorrentino
Hanno tutti ragione
Feltrinelli, Milano 2010, pp. 319, € 18,00.



Il regista cinematografico Paolo Sorrentino (Le conseguenze dell’amore, Il divo) debutta in letteratura con un futile, logorroico, fluviale perfino nei Ringraziamenti, prevedibile sin dall’incipit, snervante sproloquio camuffato da romanzo di formazione, la cui stupefacente esilità strutturale e di pensiero (oro per il lettore medio, platino per i nostri editori) consente di condensare in un fiat la trama, se tale può definirsi un’insulsa sequela di bozzetti ispirati al cinema criminale e on the road suturati alla bell’e meglio.
Il narratore-protagonista Tony Pagoda, cantante napoletano «mediamente famoso», cocainomane, tombeur de femmes, rabbioso odiatore – per motivi imprecisati – di tutto e tutti (la donna moderna, i premi Nobel, la scuola, la popolazione mattutina, gli involucri di finta pelle, i docenti universitari, i musei civici di provincia dell’Italia centrale, i «dediti al sudore diffuso sotto l’ascella» [sic], gli psicanalisti, gli uomini in tuta, la solidarietà [ma «ho sbagliato: intendevo beneficenza» rettifica in un’intervista il consapevolissimo romanziere]), di punto in bianco e per motivi altrettanto indefiniti («dopo una vita fissata a terra col cemento, avverti […] che si sta abbattendo la fine di un periodo») mette un punto alla propria esistenza matta e sregolata – chissà perché, visto che essa «possiede la potenza, la linearità e la coerenza della vita del papa o di quella di un monaco tibetano» – e si trasferisce prima a Rio de Janeiro, poi a Manaus. Rompe i ponti con l’Italia; smette d’emblée di cantare e di drogarsi; stringe amicizia col salernitano Alberto Ratto, un mutilato rissoso e invincibile, poco meno che una bestia, il quale si dichiara il depositario assoluto di tutti i misteri del Belpaese (che, a suo dire, nascerebbero «perché noi [italiani] non ci abbiamo un cazzo da fare»), senza svelarne, manco a dirlo, uno che sia uno. Dopo diciott’anni di caldo asfissiante e tormentosi bacherozzi (uno dei quali spasseggia intontito in copertina), Tony riceve la visita di Fabio, imprenditore-parlamentare sbucato dal nulla, e accetta per una cifra astronomica di suonare a casa sua, in Corsica, alla festa di fine millennio (come sia possibile rammentarsi d’un cantante non celeberrimo dopo due decennî di silenzio e che senso abbia andarlo a cercare in capo al mondo quasi fosse l’ultima ugola disponibile, resta un enigma). Lascia con lui il Brasile e ne diventa il cantante personale per un mensile da capogiro. Lo segue a Roma, dove incontra Tonino Paziente, «procuratore di esseri umani femminili [perché non, semplicemente, donne non è dato sapere] destinati a distrarre l’imperatore Fabio dai suoi impegni miliardari [leggasi ‘impegni da miliardari’]», il quale gl’insegna il principio elementare in base a cui «prospera il benessere e il conto corrente»: dar ragione a chicchessia per non farsi inimicizie (donde il titolo).
Il tutto spruzzato di sgangherati filosociopsicologismi da trivio – frutti d’una improbabile ambizione saggistico-moralistica – e di indigesti stereotipi spacciati per diamanti di suprema saggezza («La distrazione. La massima invenzione dell’essere umano per continuare a tirare avanti. Per fingere di essere quello che non siamo», «In questa città se ne cadevano i palazzi e nessuno diceva niente, tanto qualche doppiopetto di buona volontà si metteva lì certosino e ci pensava lui a ricostruirli peggio di prima», «Tutto ciò che chiamano progresso continua a sembrare, solo a pochi, o forse solo a me, una fantastica, sconcertante delusione», «questa cazzo di vita […] dà un po’ di gioia e subito dopo te la toglie»).
Un universo piatto e monologico (tutti i personaggi parlano la medesima lingua del narratore e ne condividono in toto gli ideologemi), una blaterazione infinita, una filza di battutacce da variété di quart’ordine (le più, va da sé, sversatamente e vanamente turpiloquiali: «il brillantino che gli incula l’orecchio sinistro»), un grido a squarciagola incessante e insensato, una declamazione altrettanto insaziata che demenziale desolantemente priva di coscienza linguistica, nella quale più d’un gazzettiere in estro di parallelismi e consacrazioni ha ritenuto ravvisare, scomodando nientemeno che i gran nomi di Gadda e Céline, una straordinaria originalità di pensiero fomentata da una potenza espressiva al calor bianco capace di registrare la molteplicità del reale in tutte le sue sfumature.
Nessuna meraviglia: in un deserto, in questo deserto delle patrie lettere, anche una frasca arsa può parere un rigoglioso giardino.
In verità, nell’opera di Sorrentino il reale, lungi dall’essere complesso e prismatico, non è che un maldipinto fondale di cartapesta, e quanto al livello espressivo («Ho lavorato molto – asserisce l’Autore – sul napoletano di oggi, sul parlato piccolo-borghese che conserva la costruzione dialettale dentro un nuovo italiano») nessunissima sorpresa: trattasi del solito idioma di plastica ad alto tasso di mimetismo, il “neostandard” tipico della nostra narrativa di consumo, trapuntato d’improprietà («accadono degli spartiacque», «Che danni inenarrabili siamo stati in grado di eseguire»), arcaismi involontarî più o meno sontuosi («la guardo con la stessa guisa con la quale si guardano…», «tirar un sospiro di sollievo»), eccessi cromatici e metaforici che di umoristico hanno solo la pia intenzione («uno di quei brani che taglierebbe a pezzettini anche il cuore di un serial killer svedese», «gagliardo e pretenzioso come il pappagallo Portobello», «è partito in quarta come Niki Lauda», «più opportunista e tempestiva di Paolo Rossi sotto rete, mia moglie si presenta nella stanza», «chiaro come la Schweppes», «chiaro e lampante come la Ferrarelle», «ha detto col dolore che gli sta devastando il corpo come un eczema curato malissimo», «Semplice come la prima guerra mondiale»). Una lingua che si sbraccia ma non si muove, radamente irrorata di succhi regionalistici o francamente dialettali («a capa sotto», «sopra alla rivoluzione», «quanto è vero la madonna», «di nessuna maniera» ‘in nessun modo’, «quest’è» ‘tutto qua’, «me ne sono visto bene» ‘me la sono goduta’, stare per ‘essere’ — «papà sta stanco assai» —, cosce per ‘gambe’, tenere per ‘avere’, inversioni del tipo «sono stessi i napoletani»): chiazze di colore dislocate ad arte nella speranza – ahinoi assai ben fondata – di guadagnare l’ingresso nella società letteraria dalla porta principale.

Da "Le reti di Dedalus", maggio 2010 (http://www.retididedalus.it)