Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

giovedì 30 luglio 2009

“SE VOI FOSTE PERSONE NORMALI”


Se foste un rom, quella di Salvini non vi apparirebbe come la sortita delirante di un imbecille da ridicolizzare.

Se foste un musulmano, o un africano, o comunque un uomo dalla pelle scura, il pacchetto sicurezza non lo prendereste solo come l’ennesima sortita di un governo populista e conservatore, eccessiva ma tutto sommato veniale.

Se foste un lavoratore che guadagna il pane per sé e per i suoi figli su un’impalcatura, l’annacquamento delle leggi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro non lo dimentichereste il giorno dopo per occuparvi di altro. Se foste migrante, il rinvio verso la condanna a morte, la fame o la schiavitù, non provocherebbe solo il sussulto di un’indignazione passeggera.

Se foste ebreo sul serio, un politico xenofobo, razzista e malvagio fino alla ferocia non vi sembrerebbe qualcuno da lusingare solo perché si dichiara amico di Israele. Se foste un politico che ritiene il proprio impegno un servizio ai cittadini, fareste un’opposizione senza quartiere ad un governo autoritario, xenofobo, razzista, vigliacco e malvagio.

Se foste un uomo di sinistra, di qualsiasi sinistra,non vi balocchereste con questioni di lana caprina od orgogli identitari di natura narcisistica e vi dedichereste anima e corpo a combattere le ingiustizie.

Se foste veri cristiani, rifiutereste di vedere rappresentati i valori della famiglia da notori puttanieri pluridivorziati ingozzati e corrotti dalla peggior ipocrisia.

Se foste italiani decenti, rifiutereste di vedere il vostro bel paese avvitarsi intorno al priapismo mentale impotente di un omino ridicolo, gasato da un ego ipertrofico.

Se foste padri, madri, nonne e nonni che hanno cura per la vita dei loro figli e nipoti, non vendereste il loro futuro in cambio dei trenta denari di promesse virtuali.

Se foste esseri umani degni di questo nome, avreste vergogna di tutto questo schifo.

MONI OVADIA

Fonte: L’Unità 09.05.2009

lunedì 27 luglio 2009

PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI

Con l’insistenza di un richiamo
di Francesco Randazzo

(Lupo Editore)

Rec. di Silla Hicks - Stefano Donno


Finalmente uno che ha letto Charles Michael "Chuck" Palahniuk, che l’ha studiato, anzi, è da credere. 110 pagine – 109 – che si leggono in mezz’ora, leggere nel loro terrificante disincanto, e benedette dal filo rosso dell’ironia. Avete presente Soffocare? C’è molto di Chuck, in questi raccontini che parlano di stupri, serial killer, pedofili ed estreme “second lives” come di cose quotidiane, normali, ormai parte del nostro habitat che s’è giocato ogni pudore e ogni valore, e sopravvive incosciente di se stesso. Ognuno è una piccola bomboniera – di tulle nero, è chiaro – che nasconde confetti avvelenati, ma deliziosi: il precario che esce a comprare l’ascia con cui dissezionare il cadavere della sua affittacamere e viene pestato sul raccordo da un lubrico vecchietto, il pedofilo disgustato da un’anziana checca che l’ammazzerebbe per pietà, l’extracomunitario massacrato nel sebac che s’identifica con gli escrementi attorno, l’Elettra moderna che vendica la madre morta di corna uccidendo il padre satiro e paraplegico con i piatti rotti, quello che resta della furia impotente della genitrice.
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.

(Con l’insistenza di un richiamoFrancesco RandazzoLupo Editore 2009)


sabato 25 luglio 2009

Preannunzio di disastro

di Mauro Mirci

Nel dicembre del 2003, una disposizione della Regione Siciliana obbligava i comuni a costituirsi in società per azioni che avrebbero dovuto gestire il ciclo dei rifiuti di ogni ATO (Ambito Territoriale Ottimale). Nell’isola ne vennero individuati un po’ meno di trenta. La norma prevedeva che se i comuni non avessero agito nel senso indicato, le procedure sarebbero state comunque condotte da un commissario ad acta, a spese degli enti inadempienti. Alla mezzanotte del 31 dicembre 2003, gli ATO erano una realtà, almeno sulla carta. A metà del 2004, quasi nessuna – e forse proprio nessuna - delle società aveva ancora raccolto un solo sacchetto della spazzatura. I comuni continuavano gestire e a pagare i servizi, anche se, formalmente, non avevano più il potere né il dovere di farlo.
Ma gli ATO non erano ancora in grado di farlo.
La situazione era discretamente ingarbugliata.
Partirono dei fax da Palermo. Erano le convocazioni di molti tavoli tecnici, uno per ogni ATO.

* * *


Mi telefona il capo.
— C’è un tavolo tecnico a Palermo.
— Devo venire anch’io?
— Vuoi venirci?
Nicchio un poco, perché col mio capo, di questi tempi, non corre sangue dolce, ma poi penso che è un buon Cristo, in fin dei conti, e forse ha bisogno di un po’ di conforto.
— C’è anche il vicesindaco.
Il vicesindaco è il prototipo di quello capitato lì per caso. Un esemplare politico tipo, che non sa nulla e ne parla come se avesse capito tutto. Soprattutto non ha mai idea di ciò che fa, ma riesce sempre a dare l’impressione di saperlo fare benissimo.

Ha vissuto per anni a carico del padre, s’è sposato a carico del padre, fino ai trent’anni ha venduto lavabi e gabinetti nel negozio del padre. A trent’anni e qualche giorno ha scoperto di avere un talento particolare nel raccontare storie alla gente. Uno con più grilli per la testa si sarebbe convinto di diventare uno scrittore. Lui no. S’è messo in politica. Ha arringato la folla dal palco dei comizi, senza tralasciare il dialogo a quattr’occhi con ogni potenziale elettore. Grazie a questo suo talento ha smesso di farsi mantenere dal padre per mettersi a carico dalla collettività. Risulta disoccupato all’ufficio di collocamento, di fatto viaggia in BMW e la moglie sfoggia pellicce e borse di Louis Vuitton. E pare che non siano imitazioni.
Mi viene in mente qualcun altro che, fino ai trent’anni ha lavorato nella bottega del padre e poi ha iniziato ad arringare folle. Ma la carriera è durata solo fino ai trentatrè. Il mio vicesindaco di anni ne ha già trentotto e tutti i tentativi di crocifiggerlo in consiglio comunale sono stati inutili. Credo sia solo una questione di aspirazioni. Si rischia parecchio a cercare di rendere migliore la gente, pochissimo a irretirla. Il mio vicesindaco ha molto senso pratico. Si accontenta del potere che gli viene dall’occupare una poltrona e di indossare abiti consoni al ruolo istituzionale. Possiede decine di cravatte deliziose. Ha un debole per le cravatte e non mette mai la stessa per due giorni consecutivi. Una volta ne ha regalata una anche a me. Il consiglio voleva una relazione sui costi annuali della raccolta rifiuti e io gliel’ho preparata a tempo di record dimenticando di dire un po’ di cosette che gli sarebbero dispiaciute. Quasi nessuno dei consiglieri s’è accorto di nulla, e chi se n’è accorto s’è ben guardato dal farlo notare. La cravatta è stato un riconoscimento alla mia perizia e un modo per dirmi che mi vedeva simile a lui: uno che spiega le cose già capite e chiarisce quelle ben chiare. In fin dei conti va bene così. Troppi dubbi non vanno d’accordo col quieto vivere e un politico che mira a numerose rielezioni non deve mai turbare il quieto vivere.
A pensarci bene, credo potrebbe fare bene anche senza di me. Anzi, no: ne sono sicuro. Ma si tratta pur sempre di un tavolo tecnico. E oggi non mi va di stare dietro alla scrivania.
— Vabbé, vengo anch’io — dico al mio capo. — Sei sicuro che si parlerà solo di rifiuti?
— Sicuro — risponde lui. — Perché, c’è il caso che si parli d’altro? — Sembra allarmato.
Il mio capo è fatto così. Sembra sicuro del fatto suo, ma ogni mia domanda rischia di gettarlo nel panico. E’ anche lui un bravo ragazzo capitato qui per caso e io sono colui che coi miei dubbi turba ogni giorno il suo quieto vivere. Prima faceva l’insegnante di liceo e spiegava ai suoi alunni le verità della matematica e della fisica. Da quando è stato assunto in comune ha scoperto che la verità si può montare e smontare alla bisogna. Mi piace immaginarlo, la mattina presto, davanti allo specchio, a interrogarsi sulla verità necessaria per il giorno che seguirà; a scegliere l’atteggiamento adeguato a spacciare per autentiche elucubrazioni di comodo e interpretazioni pretestuose di codici e codicilli. Questo è quello che immagino. Quello che so è che deve essergli costato parecchio cancellare dalla sua mente anni di formazione positivista per far tabula rasa di ogni resistenza al volere politico. Ha una grande casa con giardino, un mutuo da pagare, una moglie a carico, tre figli, i desideri propri del borghese medio-alto (l’estate in camper o in residence, visibilità sociale, un futuro senza preoccupazioni, una buona università per i figli, una pensione dignitosa) e non può permettersi troppi dubbi sui desideri del sindaco che lo paga. In fin dei conti ha ragione. Solo chi è come me può permettersi dubbi: sono scapolo, vivo con mia madre. Non mi costa molto allevare dubbi.
— Ci vediamo alle nove in piazza — gli dico.

Alle nove, puntale, sono nella piazzetta davanti all’ingresso del municipio. Nella ventiquattr’ore ho stipato una quantità di documenti e circolari che parlano di rifiuti solidi urbani. Più puntuale di me è giunto l’autista con la Thema blu con le insegne del comune. Meno puntuali giungono il mio capo e il vicesindaco, gli aliti ancora odorosi di caffè e un’ombra di zucchero a velo sul bavero delle giacche. Brevi cenni di saluto.
— Avete già fatto colazione? — chiede cordiale il vicesindaco a me e all’autista, ma è tardi e non attende risposta. Prende posto sul sedile davanti e ci fa segno di salire.
— Prendiamo qualcosa all’autogrill. — Controlla l’orologio. — Oppure a Palermo.
Montiamo tutti in macchina.
— Il presidente non ci sarà — dice seccato il vicesindaco.
— No? — fa il mio capo.
— Solo il vicecommissario.

Dalla tasca interna della giacca il vicesindaco cava un sigaro gigantesco, inizia a giocherellarci, ne taglia via un’estremità. Infine se lo caccia in bocca e l’accende.
— Non vi dà fastidio, vero? Tu fumi, no?
Mi accorgo che dice a me.
— Sì, fumo.
— Bene.
L’abitacolo di riempie di fumo ancora prima che l’autista abbia girato la chiave. Ma né lui, né il mio capo, fanno presente che loro no, non fumano.

Partiamo. Il conducente tiene a bada con perizia tutti i cavalli motore che, per adesso, si accontentano di andare al passo sotto il cofano. C’è traffico. Un colpetto di acceleratore, il sibilo del turbo che s’eccita per un paio di secondi.
— Metto il lampeggiante? — dice l’autista. Al vicesindaco brillano gli occhi, ma c’è stata maretta in consiglio, tempo fa: qualcuno ha criticato certe manie di protagonismo.
— No, vai piano, tanto è cosa di minuti.
Il paese è piccolo, i cavallini turbo possono riposare ancora un po’.

Siamo fuori dal traffico. L’ultimo semaforo e poi liberi, prima la statale, poi lo scorrimento veloce e quindi l’autostrada. Tra lo scorrimento veloce e l’autostrada una teoria di curve a gomito, inevitabile corollario delle strade di montagna. L’autista strombazza, non si sa mai, qualche camion o un autobus pieno di turisti francesi. Sarebbe ineducato dar loro il benvenuto sfasciandoci contro la fiancata, deturpare il bel logo della società di trasporti e lo sportellone del bagagliaio. Ma la strada è sgombra, sui rari rettilinei il motore riprende fiato e anche l’autista sembra distendersi e regge il volante quasi con delicatezza.
L’autostrada. A19, Catania - Palermo. Non c’è casello. Ci infiliamo dentro con due colpi di sterzo leggerissimi, quasi impercettibili, buoni giusto per assecondare il raggio di curvatura della rampa d’accesso e uscire dalla corsia di accelerazione. Il conducente (che si chiama Vito) pigia sull’acceleratore, il turbo reagisce con orgoglio. Decine e decine di cavalli vapore frustati a sangue scaricano sull’asfalto tutta l’energia dei loro garretti sotto forma di attrito tra i copertoni larghi e il fondo stradale. Quello che non va via in calore e attriti interni si trasmuta in pura velocità. Alberi e guard rail che schizzano all’indietro appena l’occhio li ha intuiti. Il vicesindaco sorride compiaciuto. Dice qualcosa su un corso di guida veloce.
— Eh, Vito? Come gli autisti seri.
Vito grugnisce qualcosa, ma non sembra troppo lusingato dalle parole del vicesindaco. Si vede che pensava di essere un autista serio anche prima che il comune gli pagasse il corso di guida veloce.

Durante il viaggio si discute. Il vicesindaco fa sfoggio di efficientismo, pragmatismo e buonismo. Con abilità acrobatica riesce a intavolare discorsi che partono dal vuoto e al vuoto pervengono, ma con il tono di chi sta enunciando profondissime massime o indiscutibili verità. Il conducente fissa la carreggiata con sguardo professionale. Gli invidio l’imperturbabilità e la guida fluida; al contempo ammiro il mio capo che riesce a dialogare col vicesindaco come se questi davvero dicesse cose sensate.
Finalmente giungiamo nella capitale del Regno. Si stende lasciva nella grande piana retrostante il golfo, come una prostituta d’alto bordo. La Conca d’oro risplende di luce. Di limoni rimane il minimo sindacale. In compenso abbondano seconde case abusive, lottizzazioni discutibili, villaggi vacanze sorti dalla sera alla mattina, sfasciacarrozze e orribili capannoni industriali. Il vicesindaco osserva incantato lo sfacelo. Mi sembra di intuire i suoi pensieri: sta elaborando gli imput visivi e tirando un conto alla buona di quanti voti può portare la sanatoria di un capannone o la variante urbanistica per uno sfascio. Sono convinto che sia proprio questa la sua personale idea di sviluppo industriale e urbanistico. Poi mi sembra cambi espressione. Probabilmente pensa che non ha ancora abbastanza entrature e consensi in consiglio per organizzare un massacro così in grande scala del nostro territorio comunale. E il sindaco, si dice, ha convinzioni abbastanza di sinistra, addirittura ambientaliste. Gli ha riconosciuto la carica di vice solo per accordi preelettorali, ma sulle politiche del territorio la pensano in maniera diversa. Forse il vicesindaco pensa: “Pazienza, magari alle prossime elezioni.”
Ma forse ho sbagliato tutto. Magari pensava alla corruzione nei palazzi del potere, ai bizantinismi delle leggi regionali che consentono di sanare l’insanabile (un po’ come il potere di resuscitare i morti… be’, non proprio i morti, diciamo i malati gravi), alla potenza delle lobby, ai giri di favori, alla perfetta sudditanza dei dirigenti degli assessorati.
Insomma, non so proprio cosa pensi, ma dice la prima cosa intelligente della giornata (certo, ammesso e non concesso che il soggetto dei suoi pensieri sia la città nella quale siamo diretti).
— Bottana tra le bottane. —
E tace.

La sala che ospiterà il tavolo tecnico è un cupo stanzone mal arredato. Per un po’ attendiamo in anticamera, assieme a politici e burocrati degli altri paesi e paesoni della nostra provincia. Saremo una trentina di persone.
Ci accoglie il vicecommissario delegato all’emergenza rifiuti. La carica di commissario è toccata al presidente della regione, cioè a colui che non è riuscito a evitare l’emergenza. Dal punto di vista operativo fa tutto il vicecommissario. Pensa, organizza e agisce, ligio alle direttive del commissario.
Il vicecommissario è un burocrate d’altissimo rango. Il suo curriculum è nutrito: laurea in giurisprudenza, capo del gabinetto del presidente, tante conoscenze e grande esperienza nelle arti di obbedire e comandare. Non passerà alla storia per aver risolto l’annoso problema, bensì per l’ammontare del suo stipendio.
Si accinge a presiedere il tavolo tecnico, elegantissimo nel suo completo grigio-burocratico. Ignora chi siano molte delle persone che si trova davanti ma, grazie all’esperienza che gli ha conferito il lungo esercizio del potere, riesce di primo acchito a distinguere i notabili dai burocrati, riservando ai primi saluti affettuosi e ai secondi saluti distinti.

Entriamo. Ci accomodiamo attorno a una grande tavola rotonda, come i cavalieri della tavola omonima. Al posto di Re Artù sta il vicecommissario, e di fronte a lui, come fosse un Lancillotto bicefalo, una coppia di alti burocrati regionali. Confabulano con fare confidenziale, ogni tanto ridacchiano. Colgo qualche frase in cui si parla di barche da dodici metri, di mogli che rompono i coglioni, di collaboratrici con poppe rimarchevoli. Mi chiedo che supplemento di salario percepiranno per il solo fatto di essere qui, a quest’ora, seduti a discutere degli affari propri in presenza di estranei.

Faccio un’ultima considerazione: che i cavalieri della tavola rotonda erano meno numerosi di noi, e probabilmente per questo stavano più comodi. Ci sediamo tutti, gomito contro gomito, le valigette portadocumenti sotto il tavolo. Qualche volenteroso tira fuori degli appunti. Io sono tentato, ma decido di no. Estraggo dalla valigetta solo un bloc notes a quadretti con le prime pagine occupate da annotazioni buttate giù durante una giornata di studi sul recupero dei rifiuti da demolizione. Trecentocinquanta euro per ascoltare una mezza dozzina tra funzionari degli assessorati (gli stessi che redigono le disposizioni regionali) e docenti universitari. Le leggo velocemente. E’ già preistoria. Nuove circolari (scritte dagli stessi che avevano spiegato le vecchie), nuove interpretazioni autentiche. “Soldi buttati”. Non penso altro. Si comincia.

* * *

Il vicecommissario illustra a tutti il motivo della nostra presenza lì. C’è da gestire e smaltire un bel po’ di monnezza, cosa a tutti nota, ma pare che non esista un indirizzo da tutti condiviso in merito. Qualcuno obbietta che l’indirizzo, oltre a non essere condiviso, pare latiti del tutto. Che fine hanno fatto gli inceneritori ( — i termovalorizzatori, — precisa una voce), le aree per la preparazione del combustibile da rifiuti (il CDR famigerato, altrimenti noto come Combustibile Di Ronchi, che l’esperienza campana ha consentito di conoscere bene, sotto forma di grossi cubi maleodoranti di rifiuto fasciato nella plastica così com’era, giusto la pressatura per dargli forma adeguata, e disposti in grosse piramidi di ispirazione precolombiana a macerarsi e colare liquami scuri). E gli Ambiti Territoriali Ottimali?, gli ATO, com’è ormai comune dire, o ATI, secondo la dizione di qualche addetto ai lavori rispettoso del plurale anche negli acronimi? Gli ATO, che hanno in mente di fare? Cioè, a parte insediare sceltissimi consigli di amministrazione e deliberare i compensi dei componenti?
Si genera un chiacchiericcio fatto di consensi mormorati e suggerimenti a chi si è fatto portavoce del malcontento. Il commissario delegato all’emergenza non gode del consenso di tutti i soggetti interessati, soprattutto se i soggetti in questione sono rimasti fuori dalla spartizione delle poltrone in consiglio di amministrazione. Non che, strettamente, il commissario c’entri con la formazione dei CDA, ma si tratta, nella maggior parte dei casi, di politici di piccolo calibro. Hanno l’opportunità di manifestare le proprie rimostranze a qualcuno che conta e lo fanno, ancorché per interposta persona. Questo li fa sentire partecipi di un processo decisionale che, alla fin dei conti, passa sopra le loro teste, tutt’al più riconosce loro il ruolo – importante ma non essenziale – di soggetti deputati a facilitare i compiti altrui, e per questo da blandire saziando qualche appetito con le molliche che cadranno dalla tovaglia da pranzo.
Le terminologia legata ai finanziamenti europei usa due parole (sostantivo e aggettivo) che rendono perfettamente l’idea: enti facilitatori. Due parole che definiscono bene il limite delle competenze e dei poteri. Tutto è già deciso da regolamenti e protocolli d’intesa, ma la burocrazia esige il suo. L’ente facilitatore dovrà garantire che tutto scorra secondo canali preferenziali e si concluda in tempi rapidi. Intercettare il finanziamento diventa l’obiettivo primario.
Non è questo, in effetti, il ruolo di un ente facilitatore. Ben altre sono le performances (sì, proprio performances, come fosse un ballerino o un saltatore in alto) richieste all’ente: carte dei servizi, istruttorie veloci e ben delineate, uniformità di giudizio, percorsi di verifica interna, funzionari aggiornati che sappiano dove mettere le mani, programmazioni razionali e obiettivi chiari. Ma ovunque (o quasi ovunque: non poniamo limiti alla Provvidenza) nell’isola triangolare (di questa terra so, del resto dello stivale lascio dire a chi conosce) le carte dei servizi sono pii desideri o graziosi librettini colorati farciti di begli intenti, le istruttorie lunghi e tormentati percorsi a ostacoli, l’uniformità di giudizio una zavorra pesante che non consente favori agli amici, le verifiche interne formalità prive di significato. In più l’aggiornamento professionale è spesso alibi di grandi mangiate di pesce tutte spesate, e le mani è meglio che siano pochi e scelti a sapere dove metterle, ché se tutti ‘sti funzionari cominciassero a capire davvero come funziona la macchina sai che fatica tenere a bada la quantità di teste pensanti. E poi programmazioni messe insieme col bilancino del do ut des. E obiettivi fumosi, in linea con la vacuità della programmazione.
Un quadro generale che farebbe tremare le vene dei polsi. Non fosse che non ce ne frega niente. Tutti attorno a questo tavolo tondo hanno superato la fase in cui inorridivano per il marasma sudamericano in cui si cerca ogni giorno di barcamenarsi. Anzi, i migliori vengono fuori comunque. Come la necessità aguzza l’ingegno, così il caos seleziona i migliori talenti dell’improvvisazione e delle soluzioni creative. L’isola triangolare produce così, in quantità, virtuosi del cavillo, maestri delle nozze coi fichi secchi, esperti di falsi in bilancio, abilissimi redattori di documenti che discettano del nulla, valenti imbiancatori di sepolcri, farisei devoti al quattrino e nobili venditori di aria fritta. E cassandre, urlatori nel vento e donchisciotti, anche: ma ogni sistema, per quanto perfetto (e questo non lo è, anzi, funziona meglio proprio perché assai imperfetto), produce detriti.
Anche io ci ho fatto il callo. Quasi non vedo più. Accetto il disastro futuro come un destino ineluttabile, un traguardo che verrà raggiunto, prima o poi, lottando perchè il poi sia più lontano possibile, e nel mentre tirar su quanto serve per pagare il mutuo, le ferie, il cellulare nuovo, il canone della pay tv.

Il vicecommissario apre le mani con gesto da pranoterapeuta, come a imporle sull’intero uditorio (e in particolare su chi ha manifestato la vena più polemica) e forse un che di pranoterapeuta lo possiede davvero, perché cala subito il silenzio. E dice che tutti gli assessori all’ambiente dei comuni della regione… i sindaci presenti sollevano l’indice facendo presente che sono presenti di persona e non hanno incaricato né vicesindaci, né assessori per presenziare a quel tavolo tecnico… bene, che tutti i sindaci e vicesindaci e assessori dei comuni della regione, nonché tutti coloro all’uopo delegati, hanno il dovere – il dovere! - di agevolare l’azione di queste nuove società che si occuperanno della gestione e dello smaltimento della monnezza. Chiameremo queste società, per brevità, ATO, anche se, è chiaro, ogni ATO ha formalizzato concessione a una società di gestione che s’incaricherà di sovrintendere agli atti della gestione, agirà da stazione appaltante e verificherà la regolarità ed esattezza dell’esecuzione dei servizi affidati alle società appaltatrici.
— Chiaro? — chiede il vicesindaco.
— Chiaro — risponde in coro l’uditorio.
— Quindi, per darci un fil rouge da seguire nella discussione di oggi, il tema sarà la gestione dei rifiuti a livello di ambito territoriale ottimale. Problemi operativi e tecnici, chiarimenti sul disposto normativo. Siamo disponibili a fornirvi tutti i chiarimenti necessari per affrontare nel migliore dei modi il transito di competenze alla società di servizio, tenendo conto della necessità di evitare qualsiasi soluzione di continuità nell’esecuzione dei servizi di igiene ambientale, perché la transizione avvenga nella maniera più veloce ed efficiente. Vi invito a non sconfinare in polemiche e discussioni sulla programmazione già approvata e sulle direttive adottate sino a oggi. In questa sede preferiremmo limitarci a problemi di ordine tecnico, lasciando ad altre sedi più appropriate la discussione e risoluzione di problematiche di ordine eminentemente programmatico e politico. Va bene?
Annuiamo tutti come un sol uomo.
— Bene. Cedo quindi la parola ai sindaci e assessori presenti, affinché possano esprimere il loro pensiero in merito, e le loro proposte costruttive.
— Mhm, mhm! — rispondiamo tutti a bocca chiusa, facendo sì col capo.
— Cominciamo — dice il vicecommissario. — Chi inizia?
Si alzano molte mani. Il vicecommissario ne sceglie a caso una e dice: — Prego. Gli altri dopo, in senso antiorario. — E sorride soddisfatto per aver trovato immediatamente una soluzione al problema delle precedenze.
Inizia, quindi, un vicesindaco: attacca a discutere delle perplessità che nutre per questa nuova società che dovrà occuparsi della distribuzione dell’acqua. Tutti ci guardiamo reciprocamente negli occhi chiedendoci se ci stia per caso pigliando per il culo.
Il vicecommissario, a questo punto, ha capito di che pasta siamo fatti. Già lo sospettava, ma il vicesindaco che ha appena aperto bocca glielo ha confermato. Manifesta la necessità di allontanarsi per attendere a un importantissimo e improcrastinabile impegno. Annuncia che ci lascerà alle cure del Lancillotto bicefalo. Io sospetto che, semplicemente, gli scocci terribilmente stare a sentire i discorsi inconcludenti (e, visto il potere quasi assoluto attribuito al commissario delegato, pressoché inutili) dei politichetti della provincia più povera dell’isola, l’unica senza sbocco sul mare, duecentomila anime, o poco più, in tutto, provincia babba per vocazione e in tutti i sensi, pronta a vendersi per un piatto di lenticchie a chiunque abbia abbastanza potere, o prosopopea, o entrambi. Che gli scoccia però non può dirlo, perché non è elegante – siamo in democrazia, liberté, fraternité, egalité, in fin dei conti -, l’apparenza va salvata e qualcuno potrebbe avere amici che poi si lagneranno del trattamento subito dal loro protetto. Non si deve sapere in giro che i vicecommissari – persone così importanti e tanto pagate – si scocciano pure loro di fare e sentire sempre le stesse frasi inutili.
Ma prima di uscire fa notare al vicesindaco che si scusa tanto per essere stato poco felice nella sua premessa, ma gli sembrava palese – c’era pure scritto nel fax che convocava il tavolo tecnico - che qui e oggi si sarebbe parlato proprio di monnezza. Gli dispiace proprio, ripete, ma dei problemi degli ATO idrici si parlerà altrove e in un momento diverso.
Poi esce.

Il vicesindaco gaffeur, ferito nell’amor proprio e incespicando nelle parole, ci tiene comunque a dichiarare che, comunque, è d’accordo con tutto quello che è stato detto finora. Si siede con le orecchie in fiamme, consapevole dei sorrisetti ironici che lo accompagnano mentre, con gli occhi bassi, infossa la testa nelle spalle e finge di consultare gli impegni sulla sua agenda.

A uno a uno si alzano e parlano gli altri rappresentanti dei comuni.
Uno dichiara che, nella sua città, gestirà lui i rifiuti con impresa di propria fiducia per almeno altri sei mesi, attendendo che, nel frattempo, l’ATO divenga pienamente operativo (vorrebbe dire: — che decida di muovere il culo — lo so, glielo si legge negli occhi, ma non osa). Sa già che il consiglio comunale, proprio per questo, gliela farà pagare. D’altro canto, anche se decidesse di riconoscere la piena responsabilità – tecnica ed economica - dell’ATO, che per ora non è nemmeno in grado di smaltire la carta straccia dei cestini dei suoi uffici, si ritroverebbe i cassonetti traboccanti e le strade piene di sacchetti sbranati dai cani randagi, e il consiglio troverebbe da ridire lo stesso. Per questo ha deciso di immolarsi sull’altare dell’interesse pubblico e fanculo al consiglio comunale (be’, non dice esattamente “fanculo”; è un principe del foro e “fanculo”, almeno in pubblico, non lo dice, non è chic). Nessuno gli crede. Qualche malalingua avanza l’ipotesi che attenda un posto nel consiglio di amministrazione dell’ATO.

Un altro si alza e dice tante cose, e da quello che dice si capisce che di monnezza ha fatto esperienza, anche perché è proprio nel territorio del suo comune che si prevede di realizzare una discariche per rifiuti urbani. Vuole garanzie.
— Cosa farete dei rifiuti quando scoprirete che non sarete in grado di riciclarli e nemmeno bruciarli? Vero, la discarica, ma quanto tempo durerà questa discarica se arriveranno i rifiuti di tutta la provincia?
La domanda dà fastidio al Lancillotto bicefalo, che lo sommerge con una quantità di incomprensibili dati tecnici e statistici nascosti nel groviglio inestricabile di decine di incidentali. Quello alza le mani in segno di resa. Il Lancillotto bicefalo sogghigna.

Un altro ancora la butta sul sarcasmo.
— Abbiamo il la discarica quasi esaurita. Questo ATO, quando comincerà a lavorare? Ché noi l’immondizia non sappiamo più dove metterla. Oppure, almeno, diteci che ci tocca gestire i rifiuti per un tot di tempo e vedremo di arrangiarci in qualche maniera.

A questo punto il Lancillotto bicefalo capisce che con i giochi di parole non si può frenare il flusso di domande e chiarisce:
primo: che il decreto legge 269/2003 è in fase di conversione; se non verrà convertito dovrà farsi riferimento all’art. 35 della vecchia finanziaria;
secondo: che l’ATO sarà in grado di operare solo dopo aver completamente rilevato tutti i mezzi, il personale e le dotazioni finanziarie per la gestione dei rifiuti presenti nel nostro comprensorio, e che è ancora dubbio se la gestione dei rifiuti avverrà mediante esecuzione diretta o per il tramite di un partner privato scelto con procedure di evidenza pubblica;
terzo: che la validità dei contratti esistenti tra autorità cittadine e ditte private per la gestione è tutta da verificare, e che il compito di effettuare tale verifica sarà affidato allo stesso presidente dell’ATO.
Tutte cose abbastanza noiose, che vengono capite a mezzo, o anche meno, ma riscattate subito dal punto quarto: tutti noi abbiamo un morto davanti e ce lo dobbiamo comunque godere;
(risatina del Lancilloto bicefalo)
(rientra il vicecommissario);
quinto (e si torna a un linguaggio meno brillante): che entro il mese entrante saranno approvati i progetti relativi alla gestione dei rifiuti su base comprensoriale.

Approfittando del rientro del vicecommissario, un sindaco aggredisce il presidente dell’ATO, che era seduto assieme a noi, ma talmente silenzioso e defilato da nascondere sino a ora la sua presenza, facendogli presente che è impensabile sollevare completamente i comuni dal compito di gestire il ciclo dei rifiuti. Come dire che se pensa di gestirsi tutta la faccenda solo lui con la sua società é segno che non ha ancora capito bene da che parte sorge il sole e dove va a dormire. Poi si siede sbuffando.
Il presidente dell’ATO sorride sardonico. Non sfugge a nessuno. Il significato è chiaro: gli è ben noto il percorso degli astri, forse è l’altro che ha perduto le ultime puntate dello sceneggiato. E comunque lui, il presidente, è tanto ben protetto da quegli astri, che non ha nemmeno bisogno di ribattere a quelli che straparlano senza neppure saper bene di cosa.
Lo conferma l’atteggiamento del vicecommissario, che anziché intervenire passa la parola a un sindaco che già aveva parlato prima, quello che chiedeva garanzie sulla durata della discarica. Ma quello si alza solo per dire una cosa estremamente ingenua, rimossa dalla memoria appena sentita. Resosi conto si risiede e anche lui inizia a compulsare un’agenda.
Si alza quindi il sindaco del capoluogo di provincia.
— La nostra discarica sta per esaurirsi. — Come se mettesse una mano sul cuore. — Non parlo solo per la mia, ma per le altre città che conferiscono proprio nella nostra discarica. — Elenca le città in questione, compresa la mia. Noto che bara, perché alcune di queste città, compresa la mia, è da parecchio che trasportano la propria monnezza in discariche di altre città. Il sindaco del capoluogo, intanto, insiste che ci vogliono soldi per ampliare la discarica, e il commissario deve cacciarli fuori. Altrimenti chiuderà e che si arrangino, tutte ‘ste città che conferiscono eccetera eccetera.

Parla un sindaco che amministra il più piccolo comune della provincia. E’ il decano dei sindaci e vanta un passato da onorevole regionale. Tutti lo considerano con un misto di rispetto e di tenerezza. Mentre gli altri peroravano cause di campanile, s’è scritto un bel discorso e ora lo recita con tono accorato. Un po’ va a braccio. Dice di tutto un po’, tipo che l’ATO è necessario ma occorre stare attenti ai costi di gestione, che ci saranno ritorni indiretti, che ci vuole coraggio per il bene della comunità, che ci sarà un aumento dei costi ma che non ci sarà aumento dei costi. Dice molte cose, in effetti, parecchio più di quello che riesco a tenere a mente. Provo ad annotare le sue parole, ma trovo enormi difficoltà. E’ retorico ed ellittico in maniera stupefacente, non riesco a individuare il soggetto del discorso, non si capisce se sia pro o contro qualcosa, o anche se solo sia neutrale. Spesso afferma un cosa e la nega subito dopo.

Un altro sindaco parte piano. Dice: — Gestiremo i rifiuti noi fino a tutto il 2004. Abbiamo una discarica efficiente e vorremmo che continuasse l’attività” (ed è chiaro perché: la società che ha costruito e gestisce la discarica paga un tot di royalties al suo comune, la stessa società che, qualche tempo più avanti, si vedrà affidare l’appalto per la gestione di tutti i rifiuti dell’ATO).
Dice anche: — Condividiamo le scelte —. Ma non lo dice come dicono in tanti, perché è di moda dirlo. Sembra convinto. Ha un’oratoria fantastica e finisce l’intervento con una frase a effetto. Io quasi parto con l’applauso. Poi sento qualcuno che lo chiama avvocato e ci rimango male. Maturo la quasi certezza che non pensava nemmeno un quarto di quello che ha detto.

Un vicesindaco.
— Abbiamo provato ad aumentare i tributi locali per affrontare l’emergenza. Ci si sono rivoltati contro. Non abbiamo intenzione di continuare su questa strada. Che ci pensi l’ATO.

Si alza un altro sindaco. Ci racconta un po’ di fatti suoi che non interessano a nessuno.

L’ennesimo sindaco. Si capisce subito che per lui il problema della gestione dei rifiuti coincide con quello di scaricare la responsabilità su qualcun altro. Tenta di dimostrare che il compito di garantire il passaggio delle consegne dal comune all’ATO spetta al commissario delegato e, proprio dai dirigenti del commissariato vorrebbe istruzioni su come fare. Insomma vorrebbe sapere come scaricare la patate bollente chiedendolo ai destinatari della patata..

Ancora un altro sindaco. Anche lui ci racconta un po’ di fatti suoi.

Il sindaco del comune città più piccolo delle provincia riprende la parola e dimostra la sua abilità di giocoliere (l’esperienza di Sala d’Ercole è oro!). Entra nel discorso a occhi chiusi e gestisce tre argomenti diversi senza confondersi ma confondendo gli interlocutori. Alla fine chiede: — E’ Chiaro? — Nessuno ha il coraggio di rispondergli di no.

Un Vicesindaco ci intrattiene con alcuni minuti di bla bla bla che non cambiano la storia né la giornata e non meritano più di ventisei parole.

Ancora un sindaco.
— Se l’ATO non parte, ma i sindaci non sono più legittimati a norma di legge a gestire i rifiuti, chi raccoglie i rifiuti? E visto che abbiamo stanziato dei soldi per costruire una piccola discarica, è ancora il caso di spenderli, considerato che poi l’ATO si prenderà tutto?

A questo punto aspetto con ansia l’intervento del mio vicesindaco. Non che mi attenda granché, ma è pur sempre il vicesindaco della mia città. Un moto di orgoglio campanilistico mi sale nel cuore. Cerco di attirare la sua attenzione su alcune cosette che ho annotato, domande brevi e tecniche che potrebbe porre al vicecommissario. Con la mano fa segno che non serve. Eccolo, si erge in tutta la sua altezza, prende fiato, parla. Tiene banco per dieci minuti, bravissimo a non dire assolutamente nulla. Più che altro rimastica concetti già formulati da altri, senza prendere posizione pro o contro. La finestra è aperta, per fortuna; le banalità dette volano fuori senza provocare danni a nessuno.

Il Lancilotto bicefalo si frega le mani. Ora che ha raccolto tutte le obiezioni e appreso da chi possono giungere le obiezioni più pertinenti sa di aver poco da temere. Dopo avere scambiato uno sguardo d’intesa con il vicecommissario inizia a mitragliare risposte un po’ a casaccio, cosa non difficile, poiché gran parte dei partecipanti, per tipica abitudine politica, ha dimenticato le domande. A ognuno garantisce pronta e pertinente spiegazione, salvo poi evitare di darla. Deve vendere fumo e si vede. Ma è furbo. Ogni tanto ci mette in mezzo un poco di arrosto.

Parte una domanda. Come può l’ATO garantire, come pare stia facendo, di non mutare nulla nel modo di gestire i servizi in ogni città, e ottenere al contempo, economie di scala? Sono davvero così bravi? Erano organizzati così male i servizi? Lancillotto porta avanti un discorso di scelte e responsabilità condivise. Non capisco cosa voglia dire in termini pratici. Ma i convenuti sembrano convinti e contenti.

Ecco, la seduta è terminata. Si è fatto pomeriggio inoltrato. Ho una fame da non dire e non sono il solo. Ce ne torniamo a casa con gli stessi dubbi di inizio mattina (almeno chi dei dubbi li aveva). La fame ottunde la capacità di giudizio e non sono venute più fuori domande. Il vicecommissario ci congeda. Finalmente fuori.

Il mio capo e il vicesindaco chiedono a me e Vito se abbiamo fretta di tornare a casa o se ci va di mangiare qualcosa nella capitale del Regno. Accendo il cellulare e comunico a mia madre che, per inderogabili motivi di servizio, dovrò far tardi.

Il pranzo a base di pesce in un tipico locale palermitano è quasi una merenda. Non è un granché. Il vicesindaco promette di offrire lui, ma alla fine finge di dimenticarselo perché il mio capo gli fa notare che l’economo comunale non gli rimborserà tutta la spesa. Quindi, alla fine, si fa alla romana, tanto ci spetta il rimborso del pranzo.
Ma io perdo la fattura.

La riunione tecnica di cui si parla si svolse realmente nel 2004 e i fatti andarono, grossomodo, come descritti. Qualcosa è frutto di fantasia, ma giusto qualcosa. Mi interessava soprattutto annotare i fatti di quel giorno e le sensazioni che provai ascoltando le parole dei convenuti. La maggior parte dei quali, mi sembrò d’intuire, non aveva un’idea chiara di ciò che stava facendo (almeno secondo il mio metro di giudizio), ma sembrava infischiarsene perché erano “altre” le logiche, “altri” gli obiettivi. I rifiuti erano per alcuni solo un grosso grattacapo, per altri una gallina dalle uova d’oro. E nessuno sembrava darsi pensiero per la salute della gallina.
Il disastro era prevedibile già da queste prime premesse.
Nel 2009 gli ATO sono in crisi. Costose, elefantiache macchine mangiasoldi zavorrate di amici di e figli di buone madri e buoni papà, che non furono create per raccogliere l’immondizia e infatti non ne raccolgono quasi più.

Per approfondire

9online. Sicilia: Piano Rifiuti, un fallimento da 1,4 mld

Anonimo francese. La gallina dalle uova d’oro

Attilio Bolzoni. Regione Sicilia, il boom degli stipendi d’oro. Citato in “La regione dei nababbi”,

Commissario delegato all’Emergenza rifiuti. Selezione di alcune circolari e disposizioni.

Franco Crisafi. Selezione di articoli di stampa

Massimo Greco. Ma cos’è l’ATO rifiuti? (aggiornamento)

Gianluca Ricupati. I (dis)servizi dell’ato rifiuti

Carlo Ruta. Logiche di un potere siciliano. L’Arra di Felice Crosta

Agostino Spataro. Gestione rifiuti in Sicilia: un’idra dalle 27 teste

mercoledì 22 luglio 2009


Gualberto Alvino
Peccati di lingua. Scritti su Sandro Sinigaglia
postfazione di Pietro Gibellini
Roma, Fermenti, 2009, pp. 144, euro 15.


Caro Gualberto,
questo libro ci voleva. Sinigaglia è, e forse sarà sempre, scrittore per happy few; ma non era tale anche Gadda, prima che la tenacia di Contini e la fiducia nel proprio fiuto non trovassero larghi consensi? Le tue antenne sono orientate su quella lunghezza d’onda, se anche Pizzuto, l’altro grande scrittore “per Contini” (sicuro che il tempo avrebbe prima o poi onorato il suo pronostico), è stato oggetto delle tue amorevoli e competenti cure, a partire dal carteggio fra i due, quel Coup de foudre da cui scaturì una gara di epistolografia inventiva per la quale viene in mente il verso di Lucano «stimulos dedit aemula virtus» (lo leggevo malgré moi sulla ceramica del lavabo, nella mia stanza in Collegio Ghislieri). Del resto non sei forse tu il maggior specialista, e in certo senso il creatore della categoria storiografica, della linea espressionistica meridionale? D’Arrigo, Consolo, Bufalino sono tuoi auctores, che hai servito con passione e intelligenza.
Ma torniamo ad altri lidi, a quelli del Lago Maggiore di Sandro Sinigaglia.
Proprio ad Arona, dove Carlo Carena mi invitò nel 2007 per un ricordo del loro scrittore, andai irrobustito dalla lettura dei saggi che qui raccogli. E del servigio che rendesti privatamente a me, anticipandomene il testo, potranno ora usufruire i lettori, che troveranno finalmente un libro di riferimento — dopo l’edizione complessiva delle sue poesie curata per Garzanti da Silvia Longhi — con un saggio di rara eleganza e capacità penetrativa. Alludo innanzitutto al tuo scritto d’apertura, Sinigaglia e la critica, che offre un quadro scrupoloso e insieme non anodino della critica su Sinigaglia: con giuste riserve su un paio di critici, un illustre e scomparso e un giovane emergente, negati alla comprensione di quella poesia difficile. Insomma, non dico che il tuo saggio d’apertura renda inutile la lettura di tutto ciò che è stato scritto prima, ma che dà un quadro completo e orientato al lettore provveduto, che potrà risalire alle fonti con cognizione di causa.
Ma è nell’Aditus ad antrum che tu rechi, credo, il contributo più innovativo, conducendo con pazienza dentro l’oscuro antro lessicale di Sinigaglia: un antro in cui, come nell’Averno virgiliano, facile è la discesa, ma quanto a ritornare passo dopo passo alla luce, «hoc opus, hic labor est». Il tuo labor l’hai fatto con pazienza, non solo aggiungendo una quantità di materiale al pur coraggioso glossario di Paola Italia (i pionieri meritano sempre gratitudine), ma alterandone anche le linee interpretative di fondo. Di più: scrittore in proprio quale sei, hai saputo prendere dalla contagiosa penna sinigagliana quel tanto che poteva insaporire la scrittura senza pregiudicarne la chiarezza, all’insegna s’intende della densità di marca continiana, ma senza ermetismo.
E dovrei rallegrarmi anche della Lettera non spedita a Luigi Baldacci, che è il segno di un dialogo intellettuale di alto profilo, e della Breve mantissa in lingua franca, dettata dalla tua vocazione emulativa («stimulos dedit…»).
Preferisco invece aggiungere un’ultima riflessione sul titolo, che trovo elegantissimo e che hai mutuato da una poesia extravagante di Sinigaglia: Peccati di lingua. Viene sùbito alla mente il peccato di gola. Ma in effetti non è ghiotto anche di lingua, il nostro Sinigaglia? Onnivoro no, che sarebbe epiteto irriguardoso, ma goloso sì, eccome: del dolce latino di Virgilio e del salato dialetto di Porta e di tutti gli ibridismi e neologismi, dei giochi verbali e dei diletti formali della sua nouvelle cuisine in cui tu ci hai condotto: un antro che si trasforma in luminoso luccichìo di teglie e fornelli accesi (il poeta, mi dicono gli amici, si riteneva cuoco provetto, maestro di risotti). Proprio in questo egli si distacca dagli sperimentatori e dalle neoavanguardie che tendono a fare della lingua una disgustosa frittata, proprio perché non la amano; c’è insomma anoressia invece che, come in Sinigaglia, pantagruelica bulimìa. Cambiando metafora, i poco allegri gruppettari del ’63 volevano il giocattolo per romperlo (roba borghese, dicevano, o letteratura vecchia), Sinigaglia per gioirne.
Nella giornata di Arona mi accadde di parlare dopo aver sentito, incisa al magnetofono, la voce del poeta che introduceva i versi di Virgiliana, le parole poi allegate a quei versi nella deliziosa edizione Scheiwiller dei Versi dispersi e nugaci. Sono, assieme al discorso ginevrino, un raro e prezioso documento di poetica: e la parola «gaudio» vi campeggia. È una parola che sentii più d’una volta a Contini, al lettore ideale e realissimo per il quale Sinigaglia scriveva (e tu ci ricordi quanto l’apprezzamento del «professore» indispettisse un sedicente maître à penser che rimproverava gli studiosi di linguaggio poetico come di cosa estrinseca alla poesia!). Attratto da quel termine, e dalla rilettura di certi versi nei quali l’eros poteva rivelare la sua natura anche religiosa di «conoscenza carnale» (altro che pornografia!), terminavo il mio discorso (pensa un po’) distinguendo nella ‘misteriosa’ poesia di Sinigaglia tre linee o sottospecie: i misteri gaudiosi, appunto, i misteri dolorosi e quelli gloriosi. Se, come pare, ad Arona pubblicheranno la sbobinatura della mia comunicazione, essa ricambierà (magramente) il dono che tu mi hai fatto. Nel congedarmi, dunque, voglio puntualizzare — non per te, che lo sai, ma per chi leggesse queste righe — che attraverso i Peccati di lingua si giunge a cogliere ciò che sta dietro o sotto la superficie verbale, secondo la tensione noetica propria della migliore stilistica. E che intitolando Peccati di lingua la raccolta dei tuoi saggi (indicando ad un tempo la materia e il metodo) tu strizzi l’occhio al lettore. Sai bene, infatti, che in quelle trasgressioni verbali e carnali agiva una gioiosa innocenza. Proprio così.
Con il cordiale arrivederci del tuo
Pietro Gibellini

martedì 21 luglio 2009

Come si leggono i libri: libri, donne e salsicce

di Mauro Mirci

Il testo che segue è già apparso su Vibrissebollettino.net nel gennaio 2007. Il tema era “come si leggono i libri”. ma.mi.

Come si leggono i libri. Come vuoi che si leggano i libri? Apri l’oggetto e ci guardi dentro sperando di capire quello che c’è scritto. Personalmente non sono mai venuto meno a questo metodo di lettura e mi sono sempre trovato bene.
Risposta troppo secca, capisco. Vediamo.
Fino a una certa età mi è toccato leggere lontano dagli occhi dei parenti (escludo mio padre, lettore avido anche lui ma, ahimè, sempre fuori casa). C’era questa credenza, in casa mia, che la lettura facesse male alla vista. Per questo motivo leggere veniva considerato un sacrificio, un immolare il bene preziosissimo della vista sull’altare della conoscenza. Quindi l’unica lettura ammessa e commendevole era considerata quella dei testi scolastici.

La mia povera nonna, buonanima, sacrificò ben tre figlie alle scienze e alle lettere, diplomandole maestre di scuola elementare (no, due di scuola elementare, una d’asilo), con grave turbamento d’animo per aver permesso che gli occhi delle sue beneamate fossero messi, così a lungo, in costante pericolo di forte miopia o, addirittura, cecità. Altre due figlie non vollero invece aver nulla a che fare coi libri e i loro antisalutari effetti. Lavorarono come operaie, sarte, casalinghe, cuoche, mamme e quant’altro. Si adattarono alla vita producendosi in tutte quelle attività che, ove non venissero svolte, impedirebbero a noi inerti lettori di romanzi di campare serenamente e con qualche confort.

Una delle due è mia madre. (...)

Continua a leggere su PAROLE DI SICILIA


domenica 19 luglio 2009

Waz (9)


Waz osserva i mattoni rosa come se fossero pezzetti di lego, passeggia tra palazzi, chiese e case che sembrano costruite da un bambino gigante, buono e laborioso. Immagina che in realtà sono stati operai e maestranze pazienti e pignole, perché come cazzo si fa nel 1200 a costruire una Basilica tutta di mattoncini rosei? Alta, altissima. Una roba che oggi solo di manodopera costerebbe un botto e all'architetto lo radierebbero dall'albo. E invece. L'hanno fatto. Mattoncini a milioni. Tutta una città letteralmente spalmata su una pianura. Viene voglia di rotolare per le strade stese come nastri, di sorridere senza motivo. Avrebbe voglia di dare la mano alla signora dagli occhi di cielo, di spalmare di marmellata le mani della giovane madre e poi baciargliele, fare il solletico a tutti quei chiassosi giovani ricchi di vita e soave mescolanza, dare una pacca sulla panza ad un signore di mezz'età fuoriuscito da un romanzo di Balzac, dondolare come un bambino a spasso, persino saltellare. Waz pensa, si gasa di serenità, ma prosegue silenzioso e composto. Non c'è motivo, non c'è motivo, si ripete, la tua realtà non è questa, questa è un'apparizione, svanirà, non t'illudere. La cosa meravigliosa, che lo sconcerta e lo conforta allo stesso tempo è che non capisce niente di quello che dicono. La fortuna e lo svantaggio di conoscere una lingua solo attraverso i libri: leggi e comprendi, costruisci una lingua dentro la tua testa, ed ha il tuo suono; ma quando la ascolti, quando viene parlata dagli altri, suona come nuova e sconosciuta, contratta e strapazzata come soltanto gli esseri umani sanno fare con ciò che gli è familiare. Allora puoi ascoltarla come pura musica, puoi perderti nello spiazzamento di un'ignoranza che ti salva attraverso i sensi, perché diviene puro suono - puoi infischiartene di quello che vuol dire - ti godi il minuetto, il rondò, la giga, la sarabanda, la sinfonia o la jam session, il rave, l'hevy metal, a seconda. Ogni lingua ha il suo suono, la sua musica nascosta dal significato, se lo togli viene su e da a Waz un senso di caduta verticale nell'abisso del non senso, l'appagante, fluttuante meraviglia della melodia di un popolo. E quel senso di non appartenenza alla terra, ma di comunanza emozionale, da a Waz lo stordimento e la coscienza di essere caduto dalla Luna e di vagare in un luogo che nemmeno Swift seppe immaginare per Gulliver. Ma come Gulliver, anche lui, Waz, dovrà tornare. E riprendendo a leggere libri scritti in lingue che non capisce ma traduce, ricostruire, inventare mondi pieni di gente e di avventure impossibili che riempiano il vuoto di un quotidiano perfettamente inteso.
Nel palazzo grande, nella lunga sala che accoglieva le istituzioni, Waz vaga tra specchi e statue, si sorprende a osservare come tutto sia intriso di una lieve e serena lascivia liberty, ritratti e raffigurazioni di fanciulle, signore, giovani e cavalieri del lavoro. Gli uomini sono severi ma si concedono il contrappunto visivo della muliebrità sensuale, discinta persino, come se dicessero: la nostra severità è al servizio del piacere.
Waz si sofferma davanti a un grande quadro raffigurante tre donne che si bagnano alla fonte dell'eterna giovinezza. Gli smuovono un po' di sensuale commozione. Waz gli sorride e le ringrazia, lieto che siano silenti ma gli parlino agli occhi, promettendo soltanto ciò che non si può smentire. Merci beaucop, Mesdames.

sabato 18 luglio 2009

Cento madri


Alfonso Lentini
Cento madri
Postfazione di Paolo Ruffilli, Forlì, Foschi editore, 2009, pp. 134, euro 11,90



Al critico militante càpita purtroppo sempre meno spesso di ricevere un libro non si dice di qualche decoro, ma che almeno valga, se non intero, un decimo del prezzo della carta su cui è stampato; sicché non meraviglia che possa perfino esultare di fronte a un “fuori sacco” come Cento madri, opera rotonda, compiuta, plenariamente persuasiva, appena data fuori per il Foschi di Forlì dal poliartista girgentino e bellunese d’adozione Alfonso Lentini.
Via di mezzo tra poème en prose e ‘mito’ in lasse (piuttosto che romanzo, come lo definisce nella postfazione Paolo Ruffilli, additando per giunta un plot storico, sociologico, insomma naturalistico che non esiste affatto, o, se esiste, costituisce solo una falsariga, un depistamento, non più che un aroma), in Cento madri la lingua impera sì, ma — sogno di tutti i narratori, non esclusi i più sordi al problema della ricezione, ossia i più attenti al versante formale — senza soffocare né menomamente scalfire l’efficacia e l’integrità della fabula, che avvince e coinvolge, come si dice, dal primo all’ultimo rigo. Benché, sia chiaro, Lentini non descriva ma evochi; non tessa trame ma semini indizî e vi indugi ad libitum, ben sapendo che il vero senso, l’unico che importi, s’annida nei frastagli del significante; si rida dei percorsi ma ne lasci avvertire il ductus, devoto al principio immaterialistico «esse est percipi», fecondo quant’altri mai nella letteratura e nell’arte del Novecento.
Una lingua — distillata da cento lingue — classicamente selettiva e al tempo stesso cosparsa di mine espressivistiche costantemente in procinto di esplodere (se non esplodono è per la misura dell’artefice, che sa domare la materia movendosi come un puma tra i cristalli): mirabile contrasto stilistico in cui raramente, di questi tempi, è dato imbattersi nella nostra letteratura sostanzialmente di consumo.
Mito in lasse, ma anche treatment (la fase intermedia tra il soggetto e la sceneggiatura), perché lo scrittore siciliano pensa e costruisce non solo per successione d’accordi (che Cento madri sia essenzialmente una sinfonia, nel senso squisitamente pizzutiano del termine — come d’altronde pizzutiana è la scansione in lasse —, mi sembra evidente), ma per quadri in movimento.
Prosa, insomma, con gli strumenti della poesia. Del resto Lentini è noto come creatore di forme, come un musicista della letteratura per il quale la massima di Pater — «All art constantly aspires towards the condition of music» — è sempre stata una guida.
Se la nostra società letteraria somigliasse anche solo in minima parte a quella degli anni Sessanta, se i varî D’Orrico che ammorbano le nostre gazzette valessero un’unghia di Luigi Baldacci o un capello di Carlo Bo, quest’opera sarebbe accolta con cento ovazioni.

Gualberto Alvino

Da “Cento madri”
di Alfonso Lentini


Incipit


Son fatte di carta velina, gonfie d’aria calda, e galleggiano nel cielo notturno come lucciole giganti.

All’inizio sono solo una massa floscia, un abito da sposa disabitato e stropicciato, informe. Poi a poco a poco si gonfiano, grazie all’aria calda che le riempie, la loro pelle si fa tesa e diventano un ovoide perfetto. Sembrano impazienti di librarsi in volo.

Nella piazza gremita si respira l’aroma delle feste: zucchero filato, semi di zucca e noccioline tostate. Fumano le bancarelle delle castagne, adorne di lampioncini, nel buio teporoso. Filtra, a folate, un profumo di mare siciliano e di alghe marce. È la festa del Santo.

Gonfie, pelle tesa, le mongolfiere sono ormai pronte al volo; le vedrai esitare, come esse stesse sorprese di quanto sta avvenendo di meraviglioso, e ondeggiare nell’aria al minimo soffio. Timide.
Ma subito dopo vedrai che acquistano coraggio e si staccano dal suolo, prima con lentezza, poi sempre più sicure di sé.
Se c’è un alito di vento, alcune si inclineranno leggermente, assecondando la corrente; e la loro traiettoria segnerà nel cielo una grande curva luminescente, un fioco arcobaleno elegantissimo.

Nella piazza gremita sono tutti col naso in aria per cercare con gli occhi, nello scuro del cielo, sette puntini luminosi in fila che ondeggiano in ascensione.

(Avevamo, in quei tempi rossastri, gli occhi rivolti al cielo. E forse non solo noi bambini.
Le mongolfiere si libravano sopra le nostre teste, coloratissime, fragili e rigonfie, come copiate da un sogno. Ma erano anche i tempi dei primi voli spaziali. Lo Sputnik perso negli abissi slabbrati del cosmo, così piccolo e pigolante, ci faceva quasi pena, ma ci arrossava le gote, ci eccitava forsennatamente.
Alcuni avvistavano dischi volanti. Qualcuno di noi ragazzini credeva ancora nell’Angelo Custode.
Dal cielo insomma, confusamente, pensavamo potesse arrivare una qualche salvezza).



giovedì 9 luglio 2009

Pupi di Zuccaro


Dalle ceneri di BombaSicilia, nasce una nuova rivista letteraria sul web: Pupi di Zuccaro contro un inarrestabile svanire.

Tonino Pintacuda, scrittore e giornalista di Bagheria, insieme ad un nutrito gruppo di colleghi e compagni di viaggio, offre ai lettori un sito ed una rivista in pdf.
Articoli, racconti e recensioni molto interessanti.

Il manifesto del gruppo:

La scrittura non salva, a malapena combatte, può registrare, inventare, inventariare senza completezza, accompagnare il mondo in questo svanire, accompagnare l’imperfezione con l’imperfezione, ma in nome della bellezza.

Come un messia impotente, l’angelo di Benjamin o un Cristo che resta morto per il mondo e si mette a raccontare quello che non ha potuto salvare.

Scrivere è per noi questo accompagnare e amare lo svanire, in cui chi scrive vede stagliarsi e dissolversi i profili della finitezza, imperfetti e impotenti, una tenerezza e un bisogno di raccontarli che sorge a volte persino di fronte alla loro violenza.

E poi c’è per noi uno svanire più specifico, lo svanire del Sud, lo svanire nel sonno, nella troppa luce, nel fuoco. Lo vogliamo combattere scrivendo di esso.

È una scrittura militante che vuole fissare per impedire lo svanire del Sud, denunciare per combattere quello che non è inarrestabile, che insomma pensa di poterlo fare con qualche pagina di scrittura e con fotografie sfocate.

Siamo pupi di zuccaro che combattono contro lo svanire di ciò che amiamo, e abbiamo scelto un simbolo di dono, di morti, di tradizione. Celebriamo con un canto sommesso quel po’ di bellezza che intravediamo, e quella che se ne va.


Belle menti del Sud. Da seguire.