Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

venerdì 30 maggio 2008

Michele A., libraio cortese nella periferia della periferia d’Italia

Qualche anno fa avevo un’idea molto vaga e ingenua di quale fosse il reale importo dello stipendio di un impiegato comunale. La colpa non è mia. La colpa, se di colpa possiamo parlare, è di un volantino che mi capitò sotto la suola – e subito dopo tra le mani – mentre passeggiavo per la piazza del mio paese, verso mezzogiorno, lappando un gelato. Si trattava del volantino pubblicitario di una finanziaria che vantava di concedere prestiti a chiunque, anche a protestati e casalinghe.
Lungi dal considerare il reale peso di tale affermazione la mia attenzione si fissò su una precisazione contenuta nel volantino, riguardante la modalità di restituzione del denaro da parte dei dipendenti pubblici. “Cessione quinto stipendio”. Anziché riflettere che, trattandosi di finanziaria, tale frase era il frutto di un senso di economia tanto spinto da indurre a risparmiare finanche sulle preposizioni articolate, ne dedussi che i dipendenti pubblici dovevano guadagnare assai bene se percepivano, come il volantino attestava, almeno cinque stipendi. Tanto bene da poterne cedere uno per la restituzione di un prestito. Il mio pensiero successivo concernette modi, metodi e furbate che mi avrebbero potuto consentire l’accesso al pubblico impiego. Corruzione e bustarelle incluse.
Va bene, lo confesso: era un pensiero assolutamente idiota, ma credo che la sua origine sia legata alla temperatura gelo che il cono che stavo consumando indusse nei neuroni più prossimi al cavo orale. Oggi, maturata una pluriennale esperienza nella pubblica amministrazione, posso affermare serenamente che di stipendio, gli impiegati comunali, non ne percepiscono a malapena uno. La cosa è mortificante nello scambio di opinioni, soprattutto con i direttori di banca. Direttore di banca: - Ci sono dei problemi.
Io: - Di che genere?
D.: - Di solvibilità del debito.
I. : - Mi sembrava tutto a posto.
D. : -Non si era discusso di tutte le sue uscite. Me ne ha nascosta una.
I. : - ... ?
D. : - Libri.
I. : - Libri?
D. : - Sì, libri. Lei legge, vero?
I. : - Beh, sì, saltuariamente.
D. : - Guardi, signor M., il direttore è una figura a metà strada tra un confessore e un carnefice. Se lei sarà sincero con me, se onestamente ammetterà tutto ciò che ha da ammettere, io potrò giustificarla o condannarla, dipende, ma arriveremo a una conclusione corretta e di piena soddisfazione, almeno per la banca.
I. : - E io?
D. : - Lei ricaverà la consapevolezza di avere agito in pieno spirito di collaborazione con la sua banca. Mi dica tutto. Poi si sentirà meglio, vedrà. Se non potrò assolverla concedendole il mutuo, la giustizierò negandoglielo. Qualsiasi cosa accada, quando lei uscirà da questo ufficio si sentirà un uomo nuovo. Il suo spirito sarà in equilibrio col suo corpo. Yng e Yang, capisce, quelle cose là. Mi odierà, magari, ma serenamente. Senza accollarsi alcuna colpa per il rigetto della sua richiesta di mutuo.
Insomma, ho confessato. Non ho potuto resistergli. E’ stato terapeutico. Davvero. Nemmeno padre Messina, la volta che mi confessò per la Cresima, lavorò tanto bene e con competenza.
- E’ vero - ho ammesso. - Leggo.-
- Quanti? - La domanda mi ha spiazzato. In realtà non li ho mai contati.
- Dipende - ho detto. - Da un po’ sono parecchio impegnato col lavoro...
Il direttore ha inarcato un sopracciglio.
- Straordinari, mansioni superiori, il nuovo sindaco... - ho cercato di giustificarmi.
Che bella figura di direttore. Un inarcare di sopracciglio e mi aveva rivelato che un dipendente comunale non può millantarsi oberato di lavoro. Più opportuni sono riferimenti a problemi familiari, secondi lavori, diverbi con colleghi e superiori.
- Quanti? - mi ha chiesto.
- Uno.
- Al mese?
- Alla settimana.
Il direttore ha scosso la testa.
- In inverno - ho confessato. - Durante le vacanze sono più libero; arrivo anche una dozzina al mese.

Insomma, abbiamo fatto due conti. Viene fuori che, in momenti di particolare foga, sono riuscito ad acquistare anche una decina di libri al mese.
- Sono tanti - ha esclamato il direttore. - I conti non tornano.
Ho dovuto rivelare che non li leggo tutti. Molti di ripongo su uno scaffale, in attesa di avere il tempo per leggerli. La calcolatrice da tavolo ha sentenziato che, tra libri letti e non letti, tra mesi di intenso acquisto e mesi di economia, ci attestiamo sugli ottanta volumi annui. A 15 euro l’uno fanno 1200 euro netti. Uno stipendio.
- Molto male - ha detto il direttore. - Il prezzo della carta sta salendo. Se tanto mi dà tanto, presto lei si attesterà sui 1500 euro annui. Tenuto conto delle altre spese, il suo stipendio è abbastanza basso da portarci sotto i parametri per la concessione di un mutuo. Ma possiamo fare qualcosa.
- Cosa? - ho chiesto con le lacrime agli occhi.
- Non si preoccupi. Vedrà: otterrà il mutuo. Mi parli del suo libraio.

Il mio libraio di fiducia si chiama Michele A.. E’ un po’ più giovane di me, un po’ meno alto di me, un po’ meno corpulento di me. Però è un po’ più biondo di me. La cosa guasta l’armonia comparativa che cerco di instaurare tra di noi. Gestisce una piccola cartolibreria a due passi dal mio ufficio. Vende di tutto, soprattutto ora che i gadgets delle riviste, riuniti su uno scaffale, fanno assomigliare ogni edicola a un mercatino delle pulci. Per dire, oltre a romanzi rosa in allegato alle riviste di gossip, vende CD musicali allegati a settimanali, orologi, coltelli da formaggio, pentolini, cibi liofilizzati, lacci, anelli, marsupi, valigette, carrellini della spesa, posaterie, stoviglie in scala uno a uno e in miniatura, case di bambola, bambole, articoli da cancelleria. Oltre a tutta questa roba ho notato che vende anche i quotidiani. E vende anche libri, ci mancherebbe, altrimenti che libraio sarebbe? Ha riempito due scaffali di libri, e tiene l’esposizione costantemente aggiornata. Tutti, o quasi, best sellers, s’intende.
- Praticamente vendo solo quelli - mi ha rivelato una volta. - Grisham, Smith, Cussler, King, tutti i thriller della Piemme. Ogni tanto arriva un’edizione economica di Eco e sparisce subito. Discutere con un libraio è estremamente istruttivo. Impari tante cosette che nemmeno immaginavi sui gusti dei lettori. Sono allibito la volta che mi rivelato il numero di Harmony che vende settimanalmente. Subito dopo c’è Camilleri. Talvolta vende più Camilleri che Harmony, ma Camilleri esce una volta all’anno, gli Harmony una volta alla settimana: non c’è partita.
Ogni tanto gli chiedo di qualche libro del quale ho letto su una rivista o in rete. Così ottengo sempre accuse di leggere libri strani. Ora, dico io, come fa a essere “strano” Cecità di Saramago e non La profezia di Celestino di... mah, non ricordo... Ma l’avete letto La profezia di Celestino? Però capisco che di quel libro si fece un gran parlare e un gran vendere. Di Saramago no. O almeno molto, molto meno.
Ho chiesto più volte a Michele di spiegarmi cosa sia un libro “strano”. Con citazione perfettamente circolare ha detto: - Quelli che leggi tu. Uno a zero. Palla al centro.

Però Michele non è un incolto o una persona grossolana. Assolutamente no. Quando entro nella sua libreria lo saluto dicendogli: - Buongiorno signor esercente – e lui risponde: - Buongiorno buonuomo – oppure: - Buongiorno signor acquirente.
Michele ha fatto il liceo, parla un italiano standard e lavora sodo perché c’ha moglie e un figlio arrivato da poco.
E’ un esercente, appunto. Sa che la qualità dei libri che vende è un valore relativo. La sicurezza di vendere un titolo, invece, è un valore assoluto.
I primi tempi che frequentavo la sua libreria mi chiedevo perché gli scaffali non contenessero titoli e autori diversi dai soliti noti. Tra una chiacchierata e l’altra Michele mi ha spiegato che i titoli e autori insoliti (“strani” diciamo) occupano spazio togliendolo a quelli che vendono. Per di più, a fine anno, fanno magazzino e fanno lievitare l’imponibile. Oppure lo costringono a frequenti rese, voce del verbo rendere, anche se, di fronte all’invenduto, Michele alza le mani (se qualcuno l’ha capita, alzi una mano anche lui).

A me i libri piace trovarli sugli scaffali, sfogliarli, annusarli, sentire la consistenza della carta. Di un nuovo autore mi piace cominciare a leggere, per così dire, l’odore. Ma con Michele ho dovuto abituarmi a fare a meno di queste sensazione. Quando decido di comprare un libro, di solito lui non lo ha. Allora lo ordino e tempo una settimana ho in mano il volume. A volte, se di quel testo sono uscite più edizioni non so quale mi consegnerà. Ho cercato di sostituire la curiosità sull’edizione che mi troverò tra le mani, al piacere per le sensazioni tattili e gli odori di carta e colla. Ma non c’è nulla da fare: è come sostituire la nicotina di una sigaretta con la foto del pacchetto.

Tuttavia a Michele mi sono affezionato. E’ gentile, divertente, disponibile, capace di trovarmi i titoli che mi interessano, nel limite del possibile e delle disponibilità di magazzino. Settimanalmente parte per un viaggio misterioso. Dice di andare a Palermo, "al magazzino”. Parte tenendo in tasca un quadernetto a quadri, simile a quello che anni fa utilizzava il mio salumiere per segnare la spesa dei pensionati e dei lavoratori avventizi. Michele custodisce dentro il suo quadernetto le ordinazioni dei clienti affezionati. Ed è ordinato e puntiglioso. Una volta gli chiesi un libro – non ricordo il titolo, vedi tu! – che non riuscì a reperire subito.
Me ne dimenticai.
Dopo un mese mi accolse sorridente quando andai a comprare il quotidiano.
- Buon giorno caro acquirente.
- Baciamo le mani, signor esercente.
Armato di sorriso d’assalto mi porse un volumetto (giallo, marrone, non ricordo). Seguì mio sguardo interrogativo.
- Il tuo libro.
Ricordai. Pagai. Sfogliai il libro. Lo annusai. Non aveva un buon odore. Lessi anche il libro, ora che ci penso, e mi piacque tanto quanto l’odore. Ecco, dev’essere questo il motivo per cui ho rimosso la memoria del titolo.

Nemmeno una settimana dopo aver parlato col direttore trovo Michele scuro in volto.
- Ciao - dice
Ciao?
- Problemi?
- No, niente. Che ti do?
Prendo La Sicilia. Pago.
- Arrivederci – lo saluto.
- Arrivederci.
Arrivederci?

Il giorno dopo gli chiedo un libro di Camilleri. Un’uscita nuova.
- Non ce l’ho.
Tutti i librai hanno cataste dei libri di Camilleri quando esce un nuovo libro di Camilleri. Se esce un libro, chessò, di Alberto Bevilacqua, ci sono cataste di quel libro. Se esce l'ultimo Camilleri, i librai fanno incetta anche dei romanzi precedenti, perché c'è sempre qualcuno che vuole fare la serie.
Guardo Michele con sospetto. Penso che si offrirà di ordinarmelo, e invece tace, con gli occhi bassi sul banco mentre compila una lista, mi pare, di fatture. Lo saluto in maniera fredda. Lui mi risponde a voce bassissima e sempre a occhi bassi.
Basta un breve appostamento davanti all'esercizio per scorgere un signore distinto che esce tutto contento con ben tre Camilleri in mano. Compreso il titolo che avevo chiesto io.
Dopo poco una ragazza in gonna a fiori, addirittura, si ferma davanti alla porta a vetri e prende a sfogliare il libro.

Passo la notte rivoltandomi nel letto, a pensare come e in che occasione potevo averlo offeso, ma non mi viene in mente nulla. Così concludo che forse avevo malinteso il comportamento di Michele. La sua freddezza poteva essere causata da una notte insonne - in fin dei conti un bambino in fasce non è mai stato il miglior sonnifero. E i tizi che avevano ricevuto il libro a me negato potevano benissimo averlo ordinato esplicitamente. Nel qual caso, quindi, io non avrei avuto a che fare con un libraio burbero e maleducato, bensì con un correttissimo commerciante che ha rispetto per l'ordine cronologico delle ordinazioni e ci tiene a consegnare la merce per cui si è impegnato.
Oltremodo mortificato - per questo gli occhi bassi e la laconicità - dal diniego che, suo malgrado, era costretto ad oppormi.
Può essere una spiegazione. Prendo sonno verso le quattro, ma rasserenato anzichenò.

Ritorno da Michele il giorno dopo.
- Cosa hai di Carofiglio? Non ci pensa neppure.
- Niente.
- Sicuro?
- Sicuro.
Compro La Sicilia e mi dirigo verso l'uscita. La sensazione di sollievo che mi aveva restituito il sonno sembra ora un ricordo lontano, quasi un brandello di sogno destinato all'oblio. Mentre imbocco l'uscita, l'ultimo romanzo di Carofiglio mi appare. Fa bella mostra di sé attraverso la vetrina.
Faccio dietro front e mi dirigo al banco, intenzionato a litigare. Qualcosa attira la mia attenzione.
- Hai delle buste da lettere formato mezzo foglio? – dico.
So che le tiene nel retrobottega. E infatti mi dice di attenderlo perché deve andare a prenderle. Appena si allontana leggo in fretta la lettera che avevo scorto aperta sul banco, semisommersa da volantini pubblicitari e bolle di consegna. E’ un sollecito di pagamento di alcuni effetti. Poche parole con le quali qualcuno ricorda a Michele che la mancata regolarizzazione di quei pagamenti avrebbe certo pregiudicato il buon rapporto con l'istituto di credito. L'intestazione è quella della mia banca. Sul retro del foglio un post-it reca la grafia minuta e precisa del direttore: si diceva spiacente per quell'avviso, ma che vi è stato costretto dal rifiuto netto di ragionare su quella certa cosa.
La verità si è rivelata nitida e terribile.
Quando Michele mi porta le buste da lettera pago e vado via. Non ci siamo scambiati nemmeno un ciao. Mi pare di notare un sussulto quando fissa gli occhi sul banco, eppure sono sicuro di aver riposto la lettera nella identica posizione in cui l'avevo trovata.

Dopo qualche giorno la banca mi comunica che ho ottenuto il mutuo.

[L'autore ringrazia e ossequia il dottor Gerlando G. e il ragionier Umberto T. per il mutuo concesso. Ricorda loro che, se non esistono altri librai nel paesino in cui vive e lavora, la insidiosa disponibilità di Internet pregiudica tuttavia la sua possibilità di onorare il debito contratto. Spera possibile un intervento risolutorio del problema anche presso internetbookshop.]

Stanotte all'una













Stanotte all'una,
durante una tempesta,
che minacciava il crollo
del palazzo accanto,
sono andato a pisciare.
E me ne stavo lì,
fluendo silenzioso.
Un frullo minaccioso
m'ha sfiorato il coso.
Ho pensato: sono stanco,
mi sfarfalla il frullino.
Ma era davvero una farfalla
grossa, notturna, un' Atropo.
Che schifo e che sobbalzo.
Le ho dato un colpo con un paio
di pantaloni sporchi. Pam toc.
Non è caduta. È sparita.
Ho sconfitto la morte,
ho pensato,
anche per quest'anno.

Che pensieri del cazzo,
il giorno del mio compleanno.

Quarantacinque anni
e ancora sto flesciato come
un acchiappatore nella segale.

Bah.

C'ho dormito sopra,
ché tanto il tempo scorre,
è inutile pensarci.
© Francesco Randazzo

giovedì 29 maggio 2008

«Confessione» di Stephen Dobyns




Stephen Dobyns è un poeta americano contemporaneo, un grande poeta. La sua poesia è conversativa, apparentemente semplice, ma paradossale, nuda e cruda per stile e argomenti.
Ha attraversato tutti i generi di scrittura, dalla poesia alla saggistica, dal romanzo al thriller, al giornalismo.
In Italia non è tradotto, né pubblicato come poeta (soltanto qualche thriller è arrivato nelle nostre librerie).

Questa che segue è una poesia dal volume "Velocities", News and Selected Poems 1966-1992, Penguin Book.
La lessi per la prima volta una decina d'anni fa. Mi colpì e m'infastidì molto. Oggi capisco perché. Non era un esagerato monito dal passato, ma un presagio del presente.

La traduzione è mia, non sono un anglista, l'ho fatta solo per farla conoscere, se qualcuno ha suggerimenti per migliorarla, sono bene accetti.







Confession

by Stephen Dobyns

The Nazi within me thinks it's time to take charge.
The world's a mess; people are crazy.
The Nazi within me wants windows shut tight,
new locks put on the doors. There's too much
fresh air, too much coming and going.
The Nazi within me wants more respect. He wants
the only TV camera, the only bank account,
the only really pretty girl. The Nazi within me
wants to be boss of traffic and traffic lights.
People drive too fast; they take up too much space.
The Nazi within me thinks people are getting away
with murder. He wants to be the boss of murder.
He wants to be the boss of bananas, boss of white bread.
The Nazi within me wants uniforms for everyone.
He wants them to wash their hands, sit up straight,
pay strict attention. He wants to make certain
they say yes when he says yes, no when he says no.
He imagines everybody sitting in straight chairs,
people all over the world sitting in straight chairs.
Are you ready? he asks them. They say they are ready.
Are you ready to be happy? he asks them. They say
they are ready to be happy. The Nazi within me wants
everyone to be happy but not too happy and definitely
not noisy. No singing, no dancing, no carrying on.


Confessione
di Stephen Dobyns

Il Nazista dentro di me pensa sia il momento di farsi carico.
Di tutto il disastro del mondo; la gente è pazza.
Il Nazista dentro di me vuole sbarrare le finestre,
mettere nuove serrature alle porte. C'è troppa
aria fresca, troppo andare e venire.
Il Nazista dentro di me vuole più rispetto. Vuole
un'unica telecamera, un unico conto bancario,
l'unica ragazza veramente bella. Il Nazista dentro di me
vuole essere padrone del traffico e dei semafori.
La gente guida troppo veloce; prendono troppo spazio.
Il Nazista dentro di me pensa che la gente stia diventando
impunita. Vuole essere il boss degli impuniti.
Vuole essere il boss delle banane, il boss del pane bianco.
Il Nazista dentro di me vuole uniformi per tutti.
Vuole dir loro di lavarsi le mani, sedersi dritti,
esige una rigorosa attenzione. Vuole essere certo
che dicano di sì quando dice sì, non quando dice no.
Immagina tutti dritti su sedie dritte,
la gente di tutto il mondo seduta su sedie dritte.
Siete pronti? chiede loro. Dicono di essere pronti.
Sei pronto per essere felice? chiede loro. Dicono
che sono pronti per essere felici. Il Nazista dentro di me vuole
che tutti siano felici ma non troppo felici e decisamente
non rumorosi. Non cantare, non ballare, niente indecenze.

Traduzione di Francesco Randazzo

venerdì 23 maggio 2008

Sono seriamente preoccupato

Tira un'aria nuova in Italia. Riuniti sotto bandiere azzurre e tricolori, i compatrioti vanno compattandosi intorno a un ideale di unità nazionale. E l'ideale è che tutto, nella Penisola, andrebbe bene se non fosse per qualcuno che, invece, mina dall'interno la salute della Patria.

Anni fa, studente universitario discretamente squattrinato e malvestito (e corredato di pelle olivastra, barba settimanale e capelli in disordine) fui scambiato per rumeno. Era tempo di gommoni dall'Albania e, dopo essermi guardato allo specchio, notai similitudini con l'aspetto di alcuni profughi in gommone visti in TV. Cosa che feci notare. E l'altro rispose seccato che albanese o rumeno poco importava, che tanto eravamo tutti marocchini.
Non so se ancora oggi potrei essere scambiato per rumeno, ma forse sì, anche perché sfido chiunque a distinguere un italiano da un rumeno (messi, un rumeno e un italiano, uno di fianco all'altro, nudi e muti, intendo). In ogni modo faccio la barba più spesso e porto i capelli corti.

Qualche annetto fa, poi, ebbi la ventura di vincere un concorso da dipendente comunale. Da allora rientro nella categoria dei dipendenti pubblici. Vivo ormai dietro a una scrivania, rispondo alle domande se di competenza, agisco per quanto di dovere, trasmetto a chi in indirizzo, e non riesco più a scrivere una lettera senza accreditarla con un numero di protocollo. Mi si è burocratizzato il pensiero e il linguaggio, e ciò è apprezzato in ufficio, ma molto meno da amici e familiari.

Bene, mi sono fatto l'idea che la riappacificazione nazionale dovrà passare, necessariamente, attraverso l'individuazione di uno o più nemici comuni. Alcuni si sa già chi sono, e cioé:
- Rumeni irregolari (ma non le badanti), che, si sa, sono tutti violenti, ladri e stupratori
- Pubblici dipendenti, poiché fannulloni, salvo dimostrazione del contrario.
Costoro saranno, nell'ordine, espulsi e licenziati.

Insomma, sono seriamente preoccupato.